Un milione di euro bruciato in quindici giorni, tra l’11 e il 26 luglio 2017. Soldi arrivati con tre bonifici da 333.333 euro su un conto ungherese e spariti in tempi da record. I finanziatori, tre sultani dell’Oman, avrebbero voluto investirli in un residence a Budapest. Le loro controparti italo-ungheresi, secondo la Dda di Catanzaro, avevano altri progetti: uno di questi era l’acquisto di uno yacht.

Al centro dell’intreccio finanziario intercontinentale c’è Giovanni Barone, ragioniere originario di Pizzo che la Dda di Catanzaro considera uomo a disposizione della cosca Bonavota. Tutti i protagonisti vanno considerati innocenti fino al giudizio di terzo grado: le accuse andranno dimostrate nel processo che inizierà a Vibo Valentia a valle dell’inchiesta Rinascita Scott – Assocompari. I protagonisti sono stati rinviati a giudizio grazie alla costituzione di parte civile dei sultani (presunti) truffati, rappresentati dall’avvocato Massimo De Benetti. Senza l’intervento del legale questo troncone dell’inchiesta sarebbe sfuggito all’esame dell’aula, destinato – come pareva – all’improcedibilità sancita dalla riforma Cartabia. La querela apre un nuovo scenario giudiziario, le indagini raccontano molto di questa storia.

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Le informative inseguono conti correnti in mezzo mondo: l’epicentro dei traffici è, però, l’Ungheria, dove Barone è di casa grazie agli stretti contatti con l’avvocato Edina Szilagyi.

È proprio Szilagyi a gestire parte di quel milione: avrebbe distratto 230mila euro «acquistando, per conto di Giovanni Barone, lo yacht “Nelly Star” e intestandolo alla Limetta Home Kft» da una società con sede nel principato di Andorra. Barone viene avvistato dai carabinieri a bordo di quello yacht nell’aprile 2018: si trova nel porto di Vibo, a poca distanza dalla sua Bmw X6 con targa ungherese. Gli investigatori, in quel momento, non sanno da dove siano arrivati i soldi per la barca di lusso.

La loro ricostruzione parte dai tre bonifici che arrivano dal Medioriente sul conto della Veritas Menedzement, una delle società del giro Barone-Szilagyi. Un milione di euro viene trasferito su un conto che era fermo da quasi otto mesi (dal giorno dell’apertura, a inizio dicembre 2016, fino all’11 luglio 2017): il denaro in arrivo dall’Oman dovrebbe servire per l’acquisizione del “Dohany residence” di Budapest, che sarebbe controllato (secondo quanto prospettato negli accordi) proprio dalla Veritas. Quei fondi, però, avrebbero preso strade del tutto diverse.

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I sultani omaniti, rappresentati da un investitore attivo a Dubai, avrebbero dovuto acquisire il 30% del capitale sociale della Veritas a patto di fornire il prestito da un milione (che gli italiani si impegnavano a restituire in nove mesi). È lo stesso Barone a confermare il contenuto dell’affare in una memoria difensiva recapitata dalla Dda di Catanzaro. Il ragioniere spiega, infatti, che «l’intento principale dell’offerta formulata dagli investitori arabi era quello di “acquisire il 30% del capitale sociale della società, al solo scopo di acquistare, sviluppare e vendere il Dohany residence di Budapest”».

Gli omaniti erano interessati alla Veritas soltanto perché era «l’unica proprietaria» di quel complesso immobiliare. L’ipotesi prospettata agli investitori non supera i riscontri offerti dalle visure camerali. Secondo gli investigatori, il gruppo calabro-ungherese ha venduto qualcosa che non possedeva: «Appare evidente – evidenziano i pm antimafia – come la Veritas non abbia mai posseduto partecipazioni societarie nella Dohany apartmann Kft», società che controlla il residence ambito dai sultani. Se fosse così, la storia ricorderebbe la celebre pellicola Totòtruffa, con gli appartamenti al posto della Fontana di Trevi: Barone&Co., secondo gli investigatori, sarebbero riusciti nell’impresa di incamerare un milione di euro in cambio di nulla. Gaetano Loschiavo, altro presunto attore della truffa, nella seconda bozza dell’accordo preliminare con gli omaniti si impegna a cedere il 30% delle quote della Veritas. Il fatto è che Loschiavo non avrebbe quote di quella società, dunque «non avrebbe potuto disporre di alcun potere di alienazione sulle quote di capitale sociale».

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I fondi dei sultani «polverizzati» e trasferiti sui conti personali di Barone e Szilagyi

La società ungherese - è la tesi degli investigatori - non possiede il residence eppure, di fatto, lo mette in vendita per un milione di euro. Questa provvista di denaro, «contrariamente alle finalità pattuite con gli investitori», sarebbe stata «polverizzata nel giro di uno stretto arco temporale a opera di Giovanni Barone ed Edina Szilagyi». I due, «di volta in volta dal momento dell’accredito», avrebbero operato «repentini trasferimenti in favore di propri conti personali oppure verso soggetti più in generale coinvolti nella vicenda del cantiere di Pizzo», altro business avviato dal gruppo in cui sarebbero coinvolte ditte vicine alla ‘ndrangheta.

In pochi giorni, 630mila euro finiscono sui conti di Szilagyi (475mila euro), Barone (150mila euro) e Loschiavo (5mila euro). Tutti questi movimenti riportano causali riferibili all’operazione legata al Dohany residence anche se i magistrati antimafia ritengono che questi fondi sarebbero stati utilizzati per fini diversi. L’analisi dei conti evidenzia l’emorragia finanziaria: tra l’11 e il 26 luglio 2017 vengono prelevati più 996mila euro del milione versato dai sultani. E del controllo sul residence promesso agli investitori mediorientale non ci sono tracce.