«Il ricordo di Peppe è sempre presente, non solo il ricordo delle sue parole, ma soprattutto degli atti che ci ha lasciato. Lì dove c’è da combattere la prepotenza e la violenza e lì dove c’è da stare al fianco dei più poveri e dei più deboli, lì c’è Peppe Valarioti». Cita lo Steinbeck di Furore, Peppino Lavorato, storico sindaco anti-‘ndrangheta di Rosarno, per ricordare la figura del consigliere comunale comunista ammazzato a colpi di lupara nel giugno del 1980. Un parallelo appropriato per una figura, quella del giovane intellettuale rosarnese, che della difesa dei diritti degli ultimi ne aveva fatto una ragione di vita. E gli ultimi, nella Rosarno in ginocchio della fine dei ’70– anche se a distanza di più di 40 anni a cambiare sembra sia stato soltanto il colore delle pelle dei braccianti – erano i lavoratori della terra. A loro Valarioti aveva riservato le maggiori attenzioni. Erano gli anni dell’occupazione delle terre legate alla legge “Anselmi” e della nascita di nuove forme di cooperativismo, e fu quella lotta fatta di denunce pubbliche sul malaffare a costargli la vita.

La stanza da letto di Valarioti

Oggi sarebbe stato il settantaquattresimo compleanno di Peppe Valarioti e su un muro nella casa in cui era nato, le sue sorelle Teresa, Angela e Francesca, hanno scoperto una targa che ricorda ai più giovani il coraggio e la forza dell’uomo, dell’intellettuale e dell’attivista politico che fu tra i primi in Calabria a prendere una posizione pubblica netta di contrasto al crimine organizzato. Una cerimonia discreta, davanti ai tanti cittadini che si sono raccolti in una viuzza del centro di Rosarno, proprio a due passi dalla piazza che porta il suo nome per «aggiungere un altro tassello – ha detto la referente territoriale di Libera – alla memoria di questa figura meravigliosa per troppo tempo dimenticata e osteggiata nella sua stessa città».

Sono passati più di 40 anni da quella sera di giugno in cui due rose di lupara lo colpirono a morte all’uscita di una trattoria di Nicotera. Quella sera Valarioti e i suoi compagni di partito si erano riuniti per festeggiare la vittoria del partito comunista che in quella tornata di amministrative, diventò il primo partito in città sfiorando il 30% delle preferenze. Una cena che avrebbe dovuto chiudere nel migliore dei modi una cavalcata trionfale e che si chiuse invece con una corsa inutile verso l’ospedale di Gioia Tauro. Valarioti ci arriverà cadavere.

Nessuno pagherà per quel delitto feroce. Neanche le precise rivelazioni dello storico collaborare di giustizia Pino Scriva – spietato killer della 'ndrangheta della Piana che fu ritenuto attendibile in tutte le sue indicazioni in decine di processi, meno che in quello per la morte di Valarioti – servirono a raggiungere una verità processuale. Eppure tutti sapevano, tutti avevano ascoltato le denunce pubbliche sulle ingerenze che la cosca dei Pesce aveva messo in piedi per entrare a piedi uniti nell'allora ricchissimo mercato delle arance, soprattutto quelle “di carta”.

In quegli anni infatti, dallo Stato centrale e dalla Comunità europea iniziano ad arrivare fondi a pioggia: sono destinati a coprire l’eccesso di produzione e vengono elargiti ai coltivatori come risarcimento in base al prodotto che finisce al macero. E con i soldi, presto, arrivano gli appetiti delle cosche. La ndrangheta punta la cooperativa “rinascita” – coop legata allo stesso partito comunista e cresciuta dagli 80 soci del 1971, agli oltre mille del 1980 – e le cose iniziano a precipitare. I camion con le arance da pesare prima di andare al macero si moltiplicano. Spesso esistono solo sulla carta: entrano sotto i capannoni, ricevono le carte che ne attestano il peso e senza scaricare, fanno il giro del capannone per entrarci di nuovo subito dopo e ricominciare la trafila. Una truffa che vale una montagna di denaro e di cui Valarioti si accorge e denuncia, senza guardare al fatto che anche pezzi del suo partito sono coinvolti: una scelta che porterà lo stesso Pci, almeno quello incatenato alla sua nomenclatura, a reagire freddamente dopo l’omicidio.

«Quando nel 2011 ci trovammo a Rosarno a marciare di fianco ai lavoratori migranti – ricorda ancora un emozionato Lavorato, che la sera dell’agguato si trovava a pochi metri di distanza – il corteo si fermò davanti a questa casa. I migranti conoscevano la storia di questo ragazzo che lottava per i diritti dei lavoratori più sfruttati e vollero abbracciare la signora Caterina, la mamma di Valarioti, per rinverdire quelle battaglie politiche e sociali».

Poco dopo le 17.30 la piccola manifestazione si scioglie. Giusto il tempo di togliere le transenne per fare passare i pulmini carichi di lavoratori migranti – molti dei quali vivono in condizioni subumane nelle tendopoli e nelle case rurali abbandonate della zona – di ritorno dagli agrumeti della Piana. Sono passati 44 anni, non sembra essere cambiato molto.

A giugno il Comune di Roma intitolerà un parco nel quartiere Nomentano alla memoria di Valarioti su iniziativa dell'associazione daSud.