Le indagini

’Ndrangheta, la faida dei ragazzi per conquistare il potere nelle Preserre: la Dda individua i killer della strage di Ariola

VIDEO | L’inchiesta dell’antimafia di Catanzaro ricostruisce il contesto dell’eccidio del 2003: il legame tra il clan Emanuele e i Maiolo e il piano di morte consumato tra i vicoli della frazione di Gerocarne

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di Pablo Petrasso
21 giugno 2024
12:56

È il 25 ottobre 2003, poco dopo mezzogiorno una telefonata alla centrale operativa dei carabinieri di Vibo Valentia segnala la strage. La voce di Ilario Antonio Chiera, sfuggito alla furia dei killer, spiega che nella frazione Ariola di Gerocarne si è consumato un eccidio: in quel momento i morti sono già due e due i feriti gravi. Soltanto Chiera resterà in vita. La Mitsubishi Pajero a bordo della quale viaggiavano i quattro ragazzi è a centro strada, crivellata di colpi.

I militari si trovano davanti a una mattanza pianificata per fermare una nuova fase della faida delle Preserre: decenni di omicidi per stabilire chi comandasse nell’area.


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A terra restano i corpi dei cugini Francesco e Giovanni Gallace. Stefano Barilaro, invece, morirà dopo il trasporto in elisoccorso all’ospedale di Catanzaro. Tre morti per riaffermare il dominio di Bruno Emanuele, spietato capocosca che voleva emanciparsi anche dal potere dei Mancuso.

L’inchiesta della Dda di Catanzaro che ha portato in carcere 14 persone prova a illuminare gli angoli bui della “strage di Ariola”: da quell’eccidio sono passati 30 anni. Francesco Loielo, collaboratore di giustizia e fratello degli indagati Giovanni (70 anni) e Vincenzo (77 anni), ha raccontato ai magistrati gli anni della sanguinosa faida delle Preserre. Per la strage, «i responsabili vengono individuati in Bruno Emanuele e Antonio Altamura, come mandanti» e poi Angelo e Francesco Maiolo (rispettivamente di 40 e 45 anni: entrambi sono indagati per il delitto commesso quando erano due ventenni), «che si erano alleati con gli Emanuele, come esecutori materiali». Loielo indica tra le persone coinvolte nel triplice omicidio «anche un Forastefano, sebbene non ne ricordi il nome». Due killer ragazzini entrati in azione in una stradina che porta dal Ponte dei Cavalli di Ariola verso Savini. Nei vicoli delle Preserre una follia omicida simile a quella delle “paranze” napoletane: tutto pur di affermare il proprio potere.

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«Antonio Gallace e Pino Taverniti – racconta Loielo – mi fecero capire, sempre tramite una lettera, che responsabili della strage erano Emanuele Bruno con il consenso di Antonio Altamura. La ragione della strage stava nella realizzazione del controllo del territorio. Gallace e Taverniti dissero che come esecutori materiali vi erano anche i figli di Rocco e Antonio Maiolo, che si erano messi con gli Emanuele. So che c'entra anche uno dei Forasteano che non ricordo come si chiamasse.

Loielo, spiega di aver fatto molte ricerche «per scoprire chi fosse stato» a uccidere i suoi cugini. Lo avrebbe scoperto, così racconta ai magistrati antimafia, grazie al titolo di una canzone: «In un'occasione, parlando a mezzo lettere con mio fratello Giovanni, anche lui ristretto in un altro carcere, questo fece riferimento alla canzone Emanuele, utilizzando questo escamotage per rispondere alla mia domanda». Dopo la strage, spiega ancora il pentito, chi fosse al comando era chiarissimo: «Dopo l'omicidio dei miei cugini e dei Gallace, a comandare in quel territorio sicuramente erano gli Emanuele e i Maiolo. Quest'ultimi infatti, dopo un periodo in cui giravano con noi erano passati con gli Emanuele, per come saputo in carcere sempre da Antonio Gallace e Pino Taverniti oltre che da altri».

L’altro collaboratore di giustizia, Enzo Taverniti, spiega che un suo cugino gli avrebbe svelato «che gli esecutori materiali del delitto fossero stati Francesco Capomolla (41 anni oggi) e Angelo Maiolo, con il consenso di Francesco Maiolo (classe ’79), in quel momento in stato di detenzione. A parlare con il pentito sarebbe stato Francesco Maiolo (classe ’83): «A lui glielo avevano detto prima, me lo ha confessato nella stessa sera quando mi ha confessato il tentato omicidio mio che c'era questo Capomolla». Il cugino, dice ancora Taverniti, avrebbe dovuto prendere parte alla strage, «però non se l’è sentita e si è tirato indietro».

La faida dei ragazzi, vent’anni appena, sacrificati in un modo o nell’altro in nome del potere mafioso.

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