Che di acqua si muore, il 2018 glielo ha fatto capire bene, ai calabresi: facendogli contare le bare. Ma, quello che ancora si tende a dimenticare mentre si piangono i morti, è che ad armare la falce fenara del maltempo non è il Dio del Giudizio universale, ma è la Nemesi di Calabria. La nemesi dell’inefficienza e dell’incuria, che trasforma il dissesto idrogeologico in un killer, e che si vendica a ogni occasione buona. La stessa che al Raganello si è portata via 10 turisti, a San Pietro Lametino una madre e due bambini, e che a Sibari ha ucciso la fragile credibilità rimasta in materia di tutela del bene pubblico.

 

Il sito di nuovo allagato: vergogna calabrese

E già: perché Sibari è di nuovo sott’acqua. Il parco archeologico più grande del meridione e tra i più estesi d’Europa, tre città magnogreche che aspettano tempi migliori sotto 500 ettari in gran parte ancora da scavare, è di nuovo ‘na gurna lippusa’. Come nel 2013. Una pozzanghera melmosa, con sommo scorno dei milioni spesi per l’efficentamento e dei 20 mesi scarsi passati dall’inaugurazione solenne dei lavori, l’11 febbraio 2017.
C’è da dire che nella piana del Crati, lo spettacolo medioevale in forma di tragedia edizione 2018, andato in scena nel grande palcoscenico del dissesto calabrese, ha presentato attori diversi. Nessun morto da piangere. Nessun turista strappato via dalla fiumara. Nessuna mamma, nessun bambino inghiottito dal fango, e trasfigurato da vittima dell’uomo a vittima della malasorte. Non ci sono rosari da sgranare, genitori che cercano figli, padri che gridano al cielo, folle che cercano superstiti. Nessun post sui social a vaticinare angeli volati in cielo, santi invocati al posto delle responsabilità, nessuna ricerca del miracolo in assenza di senso civico, che in altre regioni ancora si stava coi picchetti davanti alla porta della presidenza, e qui si implora la Madonna.
A Sibari, è rimasta sotto il fango la presunzione di saper gestire le vestigia d’un passato glorioso come il nostro. Difeso da pochi operatori eroici, ma con le armi spuntate. Mancò la fortuna, non il valore, si potrebbe dire di fronte a questa El Alamein dell’italica archeologia.

 

La battaglia della direttrice

L’amarezza della direttrice Adele Bonofiglio, da tre anni in trincea per proteggere il sito, si esprime così: «Non voglio e non posso fare polemica su quanto accaduto in questi giorni: intendo rimanere nell’ambito del ruolo istituzionale che ricopro. Certo è che sono felice di poter far luce sull’ultimo episodio, perché da tre anni, in quanto direttrice preposta alla vigilanza e al controllo, io ho cercato di svolgere con coscienza e scrupolo il mio incarico. Durante tutta la mia direzione, mano a mano che le opere venivano consegnate e collaudate, le ho prese in consegna, verificandone la conformità ed il buon funzionamento, e segnalando ogni elemento di rischio. Ritengo di avere sempre operato nel rispetto delle regole e dei ruoli, nonostante mi sia sentita spesso sovraesposta. Inoltre, la trasparenza e lo spirito di collaborazione avuta nel rapporto con le autorità, compreso i carabinieri del Nucleo, mi fanno attendere con serenità anche la ventilata ispezione ministeriale. Spero serva ad accertare ruoli e responsabilità».
Il suo, è stato certamente un ruolo strategico, che ha scongiurato scenari ancor più apocalittici. Se la decisione di mantenere in essere i vecchi well points, le pompe idrauliche sostituite dalla trincea drenante oggi sott’acqua, era stata corale, è stata lei, per prudenza, a conservarne il generatore, altrimenti destinato allo smantellamento. Solo grazie a questa accortezza è stato possibile rimettere in azione il vecchio sistema, che in questi giorni sta lentamente facendo riemergere l’area dal fango.

 

L'alluvione del 2013

Del resto, l’area allagata era uno spettacolo che conoscevamo già: correva l’anno 2013, (detto anche «annus horribilis») quando un’ondata eccezionale di maltempo, e l’esondazione del Crati aveva sommerso i “poveri resti” della Sibaritide sotto acqua e fango, provocando danni e perdite. All’indomani del fattaccio, dopo proclami e scudi alzati, erano arrivati gli investimenti: 18 milioni di euro, fondi Fesr 2007-2013, 4 dei quali spesi per «l’efficentamento»: ovvero, la messa in sicurezza da rischio idrogeologico. Lavori presentati l’11 febbraio 2017, con l’inaugurazione dei rinnovati parco e museo. Ad effettuarli, citava l’apposito comunicato stampa, l’ex direzione regionale Beni culturali e paesaggistici (Bcp), ora Segretariato regionale del ministero dei Beni e delle attività culturali e del Turismo (Mibact) per la Calabria.

 

I toni trionfali della rinascita fallita

Quel giorno, il comunicato stampa emesso suonava così: «In poco meno di due anni il Segretariato regionale del Mibact per la Calabria ha mantenuto l’impegno di chiudere i lavori con un finanziamento di 18 milioni. Sette gli interventi immediati e successivi all’alluvione che hanno consentito il recupero e la valorizzazione dell’area. Tutti mirati anche alla possibilità di permettere una migliore manutenzione degli scavi, un controllo rigoroso dell’area archeologica e una necessaria salvaguardia da eventi alluvionali, non soltanto in casi eccezionali come lo straripamento del fiume Crati. Interventi immediati come lo sfangamento e la ripulitura hanno permesso di restituire le aree danneggiate dall’alluvione. Importanti gli interventi funzionali come la realizzazione di trincee drenanti che consentono il controllo del deflusso delle acque piovane». Suona rassicurante, vero? 

 

La nemesi che si vendica

Il problema è che da quelle parti abita la Nemesi di Calabria: una nemesi parecchio cupa, allergica ai proclami. È lei ad infliggere ai suoi corregionali una vendetta esemplare, riservandogli, a cinque anni dall’esondazione e a meno di due dall’inaugurazione, lo stesso trattamento fatto di acqua, fango, e danni. Com’è stato possibile? Se per anni, infatti, i vecchi e costosi metodi di aspirazione, i well points, avevano tenuto all’asciutto il parco, cedendo solo alla piena del fiume, questa volta il Crati non è dovuto neanche uscire dall’alveo: è bastata la pioggia, ad allagare la nuovissima trincea drenante. Il maltempo, per cause ancora da definire, ha compromesso l’ambiente dove alloggia il sofisticatissimo trasformatore da 50 mila volt, messo fuori uso ed il gruppo elettrogeno che gli sta accanto, e posto una pietra tombale sull’affidabilità di un intervento da 4 milioni.