È il sentimento negativo più disonorevole: si può ammettere di essere pigri, irosi, gelosi, ma nessuno può confessare di provare malanimo nei confronti dei successi altrui
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Elena Pulcini, professore ordinario dell’Università degli Studi di Firenze, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, nel volume “Invidia”, scrive: «La passione triste, che spazia dalla cultura greca sino ai nostri giorni, può riassumersi nell’affermazione dello scrittore statunitense Joseph Epstein che considera l’invidia "il più insidioso dei vizi capitali"». E, potremmo aggiungere, anche il più meschino, tanto che nessuno se ne vanta come fa rilevare il duca Francois La Rochefoucauld: «Molti sono disposti a esibire i propri vizi, ma nessuno oserebbe vantarsi della propria invidia».
L’invidia resta segreta e triste. Ed anche dolorosa, perché è un vero e proprio auto avvelenamento dell’anima: non solo non riesce a sopportare il bene dell’altro, ma trova soddisfazione solo nella disgrazia dell’altro.
La psicologa siciliana Valentina D’Urso, già docente di psicologia generale all’Università di Padova, nel suo libro “Psicologia della gelosia e dell’invidia”, scriveva: «Si può ammettere di farsi prendere dall’ira, di crogiolarsi nella pigrizia o di soffrire per gelosia, ma di essere rosi dall’invidia no. È l’emozione negativa più rifiutata. Perché ha in sé due elementi disonorevoli: l’ammissione di essere inferiore e il tentativo di danneggiare l’altro senza gareggiare a viso aperto ma in modo subdolo, considerato meschino».
Giotto, nella Cappella degli Scrovegni, la raffigura come una vecchia dalle mani rapaci, avvolta dal tormento di un fuoco che ne brucia le vesti e con un serpente che esce dalla sua bocca e gli si rivolta contro iniettandole negli occhi il veleno mortale. Dante pone nell’occhio malevolo il centro dell’invidia. Nel canto XIII del Purgatorio impone agli invidiosi un singolare castigo: a loro vengono cuciti gli occhi con il fil di ferro. Propongo una mia composizione in vernacolo che ne tratteggia i caratteri dell’invidioso, suggerendone al contempo l’antidoto.
‘A mbidia
Amàru cu’ di mbidia esti afflittu,
‘ndo stomacu è velenu chi lu tagghja,
cu sangu all’occhj comu cani ragghja
e comu corna mbrundi l’avi scrittu.
La scuma di la vucca chi ngi nesci,
lu feli ch’è ndo cori è ‘na jettùra,
vaci sbattendo a testa mura mura
ma û vommica è stizzusu e no’ riesci.
Pa’ ‘rraggia si muzzica i mussa,
la carni si la scianca cu li unghj,
lu sangu ‘nda li vini chi ngi gugghj,
‘a facci, di ‘na scocca assai cchjù russa.
La malasorti di ‘stu sbenduratu!?
Si vidi cundendìzza, no’ si preja,
si ‘ngruppanu ‘nda panza li gudeja,
jestìma paru, paru lu criatu.
La sua condanna è la malavolènza
chi avi pe’ lu prossimu cundèndu,
vorria mû vidi orbucu e scundèndu,
vorria mû vidi cu’ l’acqua a la panza.
S’avìti supra l’occhju du mbidiùsu,
votàtivi di latu, e cu’ crianza,
toccativi jà ‘mmenzu, chistu e l’usu.
(di Rocco Greco)