La magistratura faccia il suo lavoro. Duramente, senza sconti. E non v’è dubbio sia così. Un 2015 di arresti e confische, di sigilli e aggressioni patrimoniali, di smantellamenti e 41bis. La ‘ndrangheta è anche questo e anche questo si merita. Anche questo, appunto. Perché la ‘ndrangheta è soprattutto altro.

 

La ‘ndrangheta è quella cosa, come dice qualcuno, che “c’è ma non si vede”. Prendi le ragazze del calcio a 5 di Locri: è assodato, non c’è ‘ndrangheta così come vorrebbero far credere i grandi giornali del nord. O meglio, non c’è un disegno criminale di tale livello. D’altra parte, però, non si può certo negare che quella brutta storia sia figlia di un ambiente malato, che vive lo “sgarro” (sottile o esplicito, non importa) con la paura di non dover continuare ad andare avanti. E come dovrebbe essere chiamata per dare una connotazione precisa una simile oscura vicenda? Burla? Scherzetto? Bravata? No, andrebbe chiamata invidia. Invidia di stampo mafiosa. Che è forse più pericolosa della ‘ndrangheta stessa. L’invidia di stampo mafiosa si alimenta a secondo di un meccanismo particolare: si muove nel nome e per conto di un fantasma. Disturba, ostacola, infastidisce. Nel silenzio e nel buio, negli affetti e nei giorni più cari. Ti chiama per nome. Se tale gesto fosse stato fatto in un’altra città del mondo avrebbe certamente avuto un altro peso. Ma a Locri, a Rosarno, a Vibo Valentia e a Cutro no. Qui il peso è specifico. E non sai mai chi ci può essere dietro una lettera minatoria lasciata sul parabrezza della macchina.

 

Ecco, la magistratura faccia il suo lavoro. Duramente, senza sconti.

 

Ma in Calabria c’è bisogno di altro. Di sicuro c’è bisogno di più speranza. Non si può delegare tutto ad un’ala dello Stato che per definizione ha il compito di assicurare giustizia. Che necessariamente non sono tranquillità e vivibilità, ma appunto giustizia. Ed è un’altra storia. Si potranno mettere al gabbio un milione di mafiosi e un milione di politici collusi, concentrare chili di inchiostro sui giornali per rendere mediaticamente più importanti le battaglie. Si, va bene anche questo. Ma anche questo, non soprattutto questo.

 

In Calabria c’è una realtà da ricostruire. Ho visto professori farsi 100 chilometri al giorno per andare ad insegnare nelle pluriclassi di Nardodipace; ho visto ragazzi andare a scuola con la pistola e sparare a coetanei per difendere l’onore tradito; ho visto treni carichi di giovani lasciare la propria terra perché a casa loro non c’era futuro; ho visto bambini giocare per strada perché non hanno un campetto da calcio; ho visto padri disperati perché la politica li ha presi in giro; ho visto (e sentito) gente dire che la ‘ndrangheta è meglio dello Stato perché non ti vessa e, in fondo, un po’ ti protegge; ho visto sfilate di moda, di abiti da sposa e di gioielli diventare cultura predominante.

 

Tutto ciò è realtà, non fantasia. E la magistratura – parafrasando uno slogan tanto caro agli ipocriti - qui non entra. Non entra perché non è compito suo. Forse è compito nostro, della cosiddetta “società civile”. O meglio, sarebbe anche compito della società civile. Anche e non soprattutto. Perché lo Stato e le istituzioni hanno il dovere di garantire ai calabresi una crescita seria e costante, non solo manette. E lo devono fare da Roma direttamente, perché qui c’è troppa poca politica capace – per nolo o dolo, impotenza o favore – di portare avanti un progetto serio, non di chiacchiere e vanità.

 

La convinzione è questa: date alla gente di questi luoghi un’alternativa credibile e non vi deluderà. Chi ha a cuore la propria terra non sgarra. Aspettando il nuovo 2016. Aspettando la primavera calabra.

 

Di Angelo De Luca