Ieri ho ascoltato l’intervento di Maurizia Martina che ha chiuso il Festival nazionale de L’Unità. La festa si è tenuta a Ravenna, la provincia più estrema di quella che una volta era la Regione Rossa per antonomasia, l’Emilia Romagna. Il 4 marzo ha spazzato via voti e miti geopolitici. Martina faceva quasi tenerezza a parlare di popolo con una piccola platea di pubblico sotto un tendone e un gruppo di ragazzi con la maglietta Rossa alle sue spalle. Il nocciolo del discorso era imperniato intorno alla difesa dell’esistenza del Pd. Un linguaggio vecchio. Stanco. Recitato con la stessa forza di un anemico prima della trasfusione. Qualche chilometro più lontano Matteo Renzi, in preda al delirio dell’egocentrismo più distruttivo avvertiva : “non riuscirete a farmi fuori”. Qualche giorno prima Nicola Zingaretti, forse il più lucido degli attori del teatrino Pd,  sosteneva invece,  la necessità di chiudere la ditta PD e intraprendere un nuovo cammino della sinistra. Tre posizioni che si sono delineate a forma di triangolo. Un triangolo  carico dello stesso rischio e mistero del triangolo delle Bermude, nel quale sono scomparse senza traccia decine di imbarcazioni.

 

Secondo il mio modestissimo parere,  credo sia molto difficile che il PD possa riprendersi questa volta. Il problema sta tutto nella sua irredimibile classe dirigente. Una classe dirigente ormai priva di credibilità nell’opinione pubblica italiana. Non è solo una questione di voti, ma qualcosa di più profondo. Le cause di questa percezione da parte dell’opinione pubblica sono diverse. Provo ad analizzarne qualcuna. La classe dirigente della sinistra italiana diventa protagonista agli inizi degli anni 90 con la chiusura del PCI. E tuttavia, dopo Tangentopoli e la fine della prima Repubblica e,  nonostante  le molteplici mutazioni di coalizione,  la sinistra italiana non è mai riuscita pienamente a vincere. È riuscita a governare, questo si, ma sostanzialmente non per consenso elettorale pieno ma per una serie di circostanze e di congiunture positive che ne hanno favorito l’ingresso al governo. Su questo punto la sinistra non ha mai fatto una reale riflessione e, soprattutto, non ha mai affrontato seriamente il problema della selezione e del ricambio della propria classe dirigente.

Nessuno ha mai pagato dazio

Dopo tante sconfitte mai nessuno dei protagonisti  ha  pagato dazio. Mai si sono analizzate le cause  delle diverse bancarotte fraudolente elettorali e  ideali portate a danno  dei principi di fondo della sinistra italiana. Di volta in volta, i D’Alema, i Fassino, i Veltroni, i Rutelli, i Franceschini ecc. si sono sempre  sottratti con abilità ad una analisi critica della propria esperienza.  Non solo,  si sono arrogati il diritto di indicare strade nuove che,  sistematicamente,  hanno portato la sinistra sull’orlo del precipizio e per anni l’hanno poi lasciata in bilico ad un passo dall’abisso.

Tuttavia, in politica,  presto o tardi, in questo caso tardi, tutti i nodi vengono al pettine. La situazione è ormai satura. Le loro ricette sono accolte con fastidio. Tra l’altro, l’evidente incapacità a leggere il contesto sociale attuale ha prodotto una distanza siderale tra loro e il popolo, il tutto, condito da argomenti e linguaggio incomprensibili. A ciò si aggiunga un’atavica propensione allo snobismo intellettuale intriso di una buona dose di intollerabile cinismo. E il dado è tratto. La percezione a pelle da parte dell’opinione pubblica,  è quella  che, questi dirigenti non credono a quello che essi stessi dicono. Provate ad ascoltare Matteo Orfini, il Frankestein costruito da D’Alema, il quale prima ha brutalizzato il suo creatore e poi ha assassinato politicamente l’ex Sindaco di Roma Marino. Quale emozione positiva dovrebbe provocare costui?

La sinistra per rinascere ha bisogno di un Capitano e una nuova squadra che giochi la partita in campo. Di anemici o cinici disegnatori di schemi di gioco a tavolino ce ne sono stati fin troppi. E hanno fallito tutti. Ora dovrebbero farsi da parte.

Fidem facere et animos impellere. Ovvero: convincere razionalmente e persuadere emotivamente. Questa breve locuzione con la quale  gli antichi latini descrivevano il linguaggio politico classico ha contribuito al radicamento della Sinistra per tutto il secolo scorso e oggi sembra irrimediabilmente scomparsa dalla comunicazione dei dirigenti contemporanei. È una leadership che non riesce a trasmettere un briciolo di emozione.

 

La sconfitta del 4 marzo

La reazione alla sconfitta del 4 marzo ripropone lo stesso schema di sempre. Sfuggire all’analisi.   Se non si parte da questo dato di fatto, tutti gli altri ragionamenti che i dirigenti del PD prediligono fare nei talk piuttosto che, in seri e articolati approfondimenti interni, sul campo dei valori, sulla necessità universale di avere ancora nel mondo una visione progressista, diventano sterili. Privi di efficacia. E men che mai hanno senso i ragionamenti demenziali sull’ondata di populismo che ha conquistato l’Europa, sulla potenza dei social, oppure sull’analfabetismo funzionale dell’umanità. Cazzate. Alibi dietro i quali, una classe dirigente che  non vuole mollare si nasconde nel tentativo e nella  provincialissima speranza che, i napoletani hanno sintetizzato genialmente nella nota espressione “addè passà ‘a nuttata”. L’Europa, il vento del populismo, con la crisi del centrosinistra italiano hanno poco a che fare. Ogni storia è una storia a se, ed è legata alle cronache e alle dinamiche politiche dei paesi nei quali, tale crisi, si è manifestata. Il partito socialista francese ha una storia di radicamento culturale e sociale tutto francese, ha governato più volte nel corso del dopoguerra e, nel nome degli interessi nazionali, ha sostenuto anche le guerre e i massacri di stampo imperialista di quella nazione. Niente a che vedere con la storia della sinistra italiana, o di quella spagnola, portoghese o greca. Lasciamo stare quindi le dinamiche europee, globali ed extra planetarie.

 

In Italia il problema riguarda la classe dirigente subentrata alla chiusura del PCI. Da allora sono passati 28 anni. Ma i protagonisti di quella sinistra sono sempre la, al loro posto. Eppure non hanno mai vinto. Hanno cambiato nome alle coalizioni, ai partiti di riferimento, hanno giocato a fare i socialisti europei, i liberal, i blairisti, i clintoniani, alla fine hanno abiurato la parola socialismo per sposare la tradizione americana di stampo kennediano.  Hanno inflazionato la parola riformismo. Hanno governato con politiche liberiste, hanno smontato lo statuto dei lavoratori, hanno sciorinato le loro ricette e le loro analisi che poi non hanno mai applicato. Hanno demonizzato i loro avversari da berlusconi in poi. Hanno consegnato un immenso potere alla Magistratura sostenendo il giustizialismo più forcaiolo. Hanno assistito senza muovere un dito alla demolizione del welfare.

Difendere i bisogni del popolo

Oggi che  la crisi ha riportato sul tavolo la necessità di difendere i bisogni primari del popolo, che ha fatto emergere una nuova precarietà sociale, che ha ridisegnato ceti e classi, la classe dirigente della sinistra,  ancora  non si è accorta che l’insediamento sociale sul quale aveva radicato e costruito la propria storia è stato occupato dalle forze definite semplicisticamente populiste. Mentre la sinistra è stata percepita come establishment, élite. E i dirigenti delle sinistre tradizionali percepiti addirittura come i difensori della finanza, dei banchieri, delle multinazionali, delle lobby economiche, piuttosto che,  difensori degli operai, dei disoccupati, dei pensionati e di tutte le categorie più deboli. Insomma per farla breve: hanno segato il ramo sul quale erano seduti e alla fine non sono riusciti a conquistare spazio nel campo avverso.

 

I temi dell'immigrazione

Anche la posizione assunta sull’immigrazione è sbagliata, perché giocata tutta sul terreno del razzismo e della demonizzazione di Salvini, tralasciando tutto il problema legato alla sicurezza nelle grandi aree urbane e non solo. Ma questa è un’altra storia che affronteremo in un altro pezzo. In conclusione, la sinistra se vuole riconquistare spazio deve eliminare una classe dirigente che si è trasformata in ceto. Pensare che ancora una volta siano gli stessi protagonisti di questo ultimo trentennio a ridisegnare un percorso virtuoso per la ricostruzione di un’area progressista, è come sperare che affidando a dei bancarottieri fraudolenti e conclamati la cura dei propri risparmi si possa triplicare il Capitale. So già come risponderanno a queste mie obiezioni: “ben altri sono i problemi”. Già,  il benaltrismo,  altro grande tradizionale e truffaldino concetto degli  intellettualoidi della sinistra per sfuggire alle proprie responsabilità.

Pasquale Motta