Non è mai stato il presidente di tutti i calabresi. Appena il 44% degli elettori, il 23 novembre del 2014, si presentò alle urne delle regionali. E di quel  44%, il 61% votò per Mario Oliverio. In pratica, su poco meno di due milioni di calabresi, è stato eletto con i voti di un quarto di essi, buona parte dei quali – visti i risultati – probabilmente oggi ritirerebbe il consenso accordatogli. Quattro anni dopo l’elezione, il governatore delle rivoluzioni tradite (sulla burocrazia, sulle istanze reali dei cittadini e dei territori, sul merito) ce lo si ritrova al soggiorno obbligato nella sua San Giovanni in Fiore.

Il governatore sotto accusa

La Procura antimafia di Catanzaro lo accusa di abuso d’ufficio in concorso con - tra gli altri - un imprenditore in odor mafia che, grazie alla condotta del governatore, avrebbe introitato soldi che poi, almeno in parte, avrebbe dirottato nel forziere del clan Muto di Cetraro. Il governatore - secondo le indagini - avrebbe agito così ottenendo dallo stesso imprenditore rassicurazioni sul rallentamento dei lavori ad una delle opere che più avrebbero rafforzato l’immagine di Mario Occhiuto, sindaco di Cosenza e suo principale antagonista sul fronte del centrodestra, piazza Bilotti. Occhiuto che, a sua volta, allo stesso imprenditore, chiedeva anch’egli - ma in una fase diversa –- di rallentare affinché l’inaugurazione della stessa piazza avvenisse solo dopo la sua rielezione e non durante il mandato del commissario prefettizio alla guida del capoluogo bruzio.

L’indagine in stile Gratteri

Questi i fatti. Nessuno crede che Oliverio sia un colluso con la mafia, sia chiaro. Nessuno lo crede, nessuno ne dubita. Neppure la Procura di Catanzaro, che ha condotto un’indagine assolutamente priva di quell’accanimento o di quel furore giudiziario che talvolta caratterizza certe inchieste delle Procure italiane sulla politica. L’inchiesta, invece, è in linea con lo stile di Nicola Gratteri e del suo ufficio: s’indaga sui fatti, non sulle persone; si portano prove e indizi concreti, non meri sospetti, supposizioni o illazioni. Ed è un’inchiesta, “Lande desolate”, così ben strutturata che ha convinto un giudice terzo, Pietro Caré, dall’aplomb e dall’equilibrio unanimemente riconosciuti anche dalla classe forense, ad emettere un provvedimento restrittivo della libertà personale a carico dello stesso presidente della Regione.

Una sentenza etica

La giustizia farà il suo corso. Oliverio si difenderà davanti ai magistrati. Oggi davanti al gip, il 27 dicembre davanti al Tribunale del Riesame. E in giudizio, se ci sarà un giudizio. “Lande desolate”, però, una sentenza (e non è la prima) l’ha già scritta, ed è di carattere etico: abbiamo a che fare con una politica arrogante e con una burocrazia scostumata, che ha sempre piegato il sistema, che vuole le anticamera affollata, cittadini proni, professionisti striscianti, imprenditori sottomessi e chi non s’adegua viene isolato e schiacciato.

Quanti altri scandali ancora?

Quanti altri politici e dirigenti dovranno essere sottoposti al soggiorno obbligato, agli arresti, allo scandalo, prima che il sistema cambi? Ma il sistema non vuole cambiare. Oliverio diceva di volerlo cambiare. Lo diceva, ma non l’ha fatto. Anzi, se le cose sono andate come sostengono i pm di Catanzaro, di quel sistema se n’è anche servito. Il presidente della Regione oggi fa lo sciopero della fame (a che serve?), difende la sua storia politica (e ci può stare), dice di aver sempre combattuto illegalità e mafia (vabbé…) e poi che non permette a nessuno di infangarlo, neppure a uno come Gratteri (la botta in testa evidentemente è stata parecchio forte). Qui Oliverio va parecchio fuori dal vaso, perché fondamentalmente a Gratteri - anche il procuratore di Catanzaro, qualora fosse sfuggito al presidente della Regione, ha una sua storia - non è mai interessato il “nome”, ma il fatto, il comportamento, e se Gratteri ha gli elementi indiziari e probatori sufficienti sul fatto, fa il suo lavoro fregandosene del resto, cioè del nome. Ciò, per parafrasare lo stesso governatore, non rende Gratteri Cristo o Dio in terra, ma semplicemente un uomo che (per ciò che ha fatto, fa e rappresenta) ispira fiducia in una popolazione che invece non ha più alcuna fiducia (per ciò che ha fatto, fa e rappresenta) nella politica.

Ecco perché bisogna andare a casa

Già, parliamo di quella politica che quel sistema su cui indagano Gratteri, Capomolla, Luberto, l’élite di finanza, carabinieri e polizia che oggi operano nel distretto di Catanzaro non lo vuole cambiare. Il consiglio regionale ieri ne ha dato una plastica prova. Ha ragione Gianluca Gallo: Oliverio dovrebbe dimettersi per il fallimento della sua azione di governo. Ma sbaglia Gianluca Gallo a sostenere che non deve dimettersi per l’inchiesta che lo vede coinvolto. Qui non si tratta di essere garantisti o giustizialisti, ma di guardare ai fatti, ai profili etici e non penali di questa indagine e di tutte le altre che l’hanno preceduta. Bisogna guardare a tutti quei casi che, pur non oggetto di indagini giudiziarie, hanno svelato il solito malcostume della casta. Bisogna andare a casa, bisogna dire: avete fallito, abbiamo fallito.

Non gode solo l’antipolitica

Anche Carlo Guccione e gli altri dicono che Oliverio non deve dimettersi. Alcuni contestano la “doppia morale” come dire: con noi, subito cacciati dalla giunta dopo Rimborsopoli, lui non è stato garantista, ma con lui che oggi non può più mettere piede nel Palazzo, noi garantisti lo siamo. Quasi quasi, anziché riflettere sulla situazione, pare che qualcuno ci goda. Tant’è.

Un capogruppo ultrà

Colui il quale fa più tenerezza però è Sebi Romeo, il capogruppo del Partito democratico. L’amore di un ultrà per la squadra del cuore fa un baffo all’impeto con cui Romeo difende il governatore, lui sì descritto come una sorta di Gesù Cristo tra noi. Attacca frontalmente la Procura di Catanzaro («accuse infamanti e infanganti», dice). Arriva perfino a gettare ombre per una presunta fuga di notizie: perché i giornalisti avevano subito l’ordinanza del gip e qualcuno ha erroneamente affibbiato l’aggravante mafiosa anche ad Oliverio. Bene, premesso che pure il Legislatore ha previsto – con la riforma delle intercettazioni varata dal suo Partito democratico – che i giornalisti possono entrare legittimamente in possesso delle ordinanze del gip, nel momento in cui viene notificata una misura cautelare a carico del presidente della Regione, qualcuno pensa forse che i giornalisti se ne stiano con le mani in mano? Con l’esecuzione di sedici provvedimenti, poi, cosa crede Romeo, che prima o poi una copia non arrivi ai giornalisti? E a prescindere da tutto: se ci si trova davanti a vicende di straordinario interesse pubblico, è un dovere spiegare – sulla base degli atti, non delle veline della polizia giudiziaria o degli avvocati – di cosa si sta parlando. In ultimo: Oliverio è indagato in un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, per un’ipotesi di reato in concorso con un imprenditore a cui è contestata l’aggravante mafiosa. Ora va meglio?

L’intelligenza di tacere

Ed è inutile intorbidire tutto facendo a cazzotti con Nicola Morra o richiamando le vicende giudiziarie dei cinquestelle a Roma e Torino. Il problema, caro Romeo, è un altro. Il problema è che – detto papale papale – la gente ne ha le scatole piene. Siete degli “eletti” che prendono un pozzo di soldi e con quali risultati? Che occupano e lottizzano manu militari tutto ciò che capita loro a tiro. Romeo, vogliamo parlare delle vostre strutture speciali, di quanto guadagnano e cosa effettivamente fanno i vostri collaboratori? Quindi, per favore, una volta tanto, se proprio non volete guardarvi allo specchio, almeno abbiate l’intelligenza di tacere.