In tutto il vicinato le famiglie che possedevano il televisore si potevano contare e là, in quelle case fortunate, noi ragazzi accorrevamo numerosi e seduti per terra assistevamo alle imprese di Jim della jungla, Zorro, Tarzan e Rintin-Tin. Da lì a pochi anni, i televisori si sarebbero moltiplicati e sopra ogni tetto e balcone sarebbero comparse le antenne Tv che avrebbero cambiato le vedute di ogni città e contrada dell’intero Paese e con esse la società tutta.

Le serate d’inverno, attorno la ruota del braciere, erano i faràguli raccontati da genitori e nonni, che ci tenevano svegli facendoci fantasticare orchi, cavalieri coraggiosi e matrimoni tra popolane e principi reali.

Finito di cenare, era il nonno che raccontava le storie, un po’ inventate e un po’ vissute. Spesso i suoi racconti narravano la guerra, la Grande Guerra, che lui aveva combattuto in prima linea. Di quell’epoca, conosceva anche alcuni romanzi, letti alla truppa, per la maggiore analfabeta, da un giovane ufficiale che lui chiamava “il Tenentino”. Storie di cavalieri che affrontavano imprese temerarie, di draghi a tre teste messi a guardia di tesori, da sconfiggere a colpi di spada e di sagaci indovinelli. Ed ancora, le storie di Jaghà, un ingenuo ragazzotto, privo di qualsiasi furbizia e fatalmente raggirato da imbroglioni e truffatori che incontrava, per la disperazione della povera madre. Fatti di briganti e di santi, di morti che tornavano nel mondo per vendicare offese subite. E tutti attenti, con l'orecchio proteso, fantasticando e vivendo quelle favole con animo di bambini quali eravamo, fino a quando uno dopo l’altro, io e i miei fratelli non cadevamo nelle braccia soporifere di Morfeo.

Una volta, il nonno raccontò di quando ebbe ad uccidere con la sua doppietta un famigerato lupo che si aggirava attorno alle campagne del circondario. La bestia aveva già sbranato diverse pecore tra le greggi e per questo era braccata dai pastori.  Una sera si appostò nei pressi di uno degli ovili dove già il lupo aveva scannato alcune pecore e quando fu buio pesto, vide due bagliori venire fuori dalla radura: erano gli occhi del lupo che balenavano nelloscurità. Mirò al centro delle lucelle e l’animale cadde flettendo le zampe anteriori, come ad inginocchiarsi, emettendo un flebile guaito prima di stramazzare riverso su un fianco. Il nonno lo raccolse e caricatoselo sulle spalle, fece il giro delle fattorie e ad ognuna di queste ricevette in dono ricotta, forme di formaggio e quant’altro.

Nel periodo di Natale, per le strade i ragazzi giocavamo ai “casteji” con le nocciole. Il gioco consisteva nel posizionare tre nocciole una accanto all’altra, con una quarta sopra a formare “u casteju”. Quando ogni giocatore aveva posizionato il proprio castello, da una data distanza, a sorteggio, si tirava con un’altra nocciola, “u faju”, cercando di demolirli. Le nocciole dei “casteji” abbattuti rappresentavano la vincita.

Per “faju” si sceglieva la nocciola più grossa e tondeggiante. I più esperti, per renderla più pesante e far sì che l’impatto con “i casteja” fosse più devastante, la foravano, estraevano il frutto e la riempivano con pezzetti di piombo e poi richiudevano il foro con del sapone. Si giocava cu’ a “resca”, o senza.  La resca (spina di pesce) la formava uno dei giocatori posizionandosi appena dietro ai casteji talloni uniti e piedi divaricati a segnare le dieci e dieci. Si era convinti che, indicando la giusta traiettoria di tiro, si traesse vantaggio.

La sera del 31 di dicembre c’era l’usanza i ragazzi di portare “U Bonu Capudànnu” nelle case di amici e parenti. Questo veniva identificato e materializzato in una grossa pietra che, portata su una spalla, si scaricava sul pavimento della casa visitata. Delle canzoncine accompagnavano il rito propiziatorio. La famiglia apprezzava molto la visita dei fanciulli con la pietra, per l’augurio di un felice anno che questa rappresentava, e ricambiava offrendo loro dolci natalizi, mandarini e frutta secca. Più grossa era la pietra, maggiori erano le aspettative dei ragazzi nel ricevere i doni.

Quandu figghjòlu Natali venìa!

Vorrìa mu torn’ arredu
nu pocu di anni
quandu criscìa figghjòlu a’ casa mia.
Sulu pé nguna ura
e poi u ritornu:
di tandu in tandu haju ‘sta fandasia.
Vorrìa u respiru l’aria di chiji tembi
quandu a Natali ‘a mamma si mendìa
pé mu prepara chiju chi facìa
da’ tradizioni chi ébbumu sembi.
Vorrìa mu viju pàtrima ô vrasceri
cundàri i faràguli ‘i ‘na vota
tutta ‘a famigghja assettàta a’ rota:
quandu tembu passàu,
mi pari ajeri.
Vorrìa mu provu,
u aju chiju piaciri
ch’esti ndo cori e ogni tandu affiora
vorria m’u sendu n’atra vota ancora:
‘na bizzarria, chi no’ pô avvenire.
Moni si fannu puru i stessi cosi
anzi, ndavimu ‘i cchjù,
ca cu’i sapìa!?
Ma u Natali chi figghjòlu venìa
parìa diversu,
… o era n’atra cosa!

(Rocco Greco)