Il disprezzo verso i giornalisti che provano a dare il meglio. Il nostro ruolo ignorato anche dagli apparati dello Stato. La politica? Peggio che andar di notte… Vi raccontiamo le nostre sventure sulle scene del crimine… All’Aterp, all’Arpacal… Nella quotidianità
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Ecco perché fare informazione (buona informazione, intendo) in Calabria a volte diventa impossibile… Provo a spiegarvelo, anche se è complicato. Anche se non tutti capiranno. Anche se molti capiranno ma faranno finta di non capire. Male che vada, comunque, fare outing, di tanto in tanto, mi farà bene.
Ormai, noi giornalisti, specie quelli che – come amava ripetere un mio vecchio direttore che ormai purtroppo non c’è più – proviamo (scusate la presunzione) a tenere la schiena dritta, siamo dei rompipalle appestati. Qualcuno dirà, ma un giornalista serio “rompipalle” lo è nel Dna: è vero, solo che fino a qualche anno fa – fino a quando cioè il web non aveva ancora liberalizzato l’incompetenza, l’imbecillità, le fake news e il giornalismo da scrivania – un minimo di rispetto nei nostri confronti lo si aveva. Adesso, invece, è tutta un’altra storia… Adesso, se ti va bene, ti mostrano disprezzo, se va male sei considerato uno scribacchino che non ha altro da fare nella vita.
Fino a qualche anno fa, per esempio, erano gli stessi alti in grado di polizia o carabinieri ad avvisarci che c’era stato l’omicidio. Ci davano le notizie essenziali per raccontare il fatto, ci consentivano di riprendere quello che era necessario per fare il servizio e, quindi, il nostro lavoro. In pratica c’era un patto non scritto di mutua assistenza: le informazioni che era possibile pubblicare venivano, in sostanza, “controllate”, noi non stressavamo nessuno né ci stressavamo, riprendevamo i luoghi in condizioni di sicurezza e, ad un certo, punto ci toglievamo dalle scatole molto prima. Era più facile e il nostro lavoro era migliore, più sereno certamente, più preciso, più puntuale.
Oggi è diverso. Oggi, se da un lato abbiamo Procure all’altezza, come quella di Catanzaro e Reggio (Gratteri e Bombardieri sono tra i pochi, pochissimi, che per noi sono un modello da seguire) - che sanno dialogare con gli organi di informazione e i giornalisti a cui riconoscono un ruolo fondamentale, quello di essere un canale di comunicazione insostituibile con l’opinione pubblica - dall’altro ve ne sono diverse che questa sensibilità non ce l’hanno. Oggi ci avverte quasi sempre solo il passante e per avere dettagli sul delitto o t’affidi a medici, infermieri, vicini di casa, addetti alle pompe funebri e preti, o puoi schiattare. Il primo uomo in divisa che ti vede, che magari ha la metà dei tuoi anni ed è sulla strada da qualche mese, ti minaccia che t’arresta… Non scherzo, succede quasi sempre. Tu sai che non lo può fare, che stai lì per guadagnarti il pane, che se non rompesse le scatole e ti facesse fare il tuo lavoro (tanto alla fine col servizio in redazione ci devi tornare) anziché combattere per un paio d’ore, ci rimarresti il giusto senza dare fastidio. E invece no…
Un tempo c’era collaborazione: «Queste sono le notizie che possiamo darvi…», «Mettetevi qua… Non riprendere questo, puoi riprendere quest’altro… Evita di riprendere qualcuno senza berretto…». Adesso, nove volte su dieci, resti in mezzo ai parenti del morto ammazzato che, in una terra di mafia, quasi sempre, è gente di mafia che ha una testa di mafia… E allora minacce, avvertimenti, tensioni. Immaginate il clima… A chi lo raccontiamo? A chi lo denunciamo ormai?
A volte ti organizzano la conferenza stampa, ma se chiedi una foto, un video, materiale, a volte perfino il nome dell’arrestato o fai una domanda intelligente, ti guardano come fossi un marziano. Ma che la fate a fare, allora, la conferenza stampa?
E la politica? Peggio andar di notte. Prendete Mario Occhiuto. L’altro giorno ci ha con disinvoltura inseriti – in una compagnia dobbiamo dire (Nicola Morra, Marisi Manzini, Gazzetta del Sud…) – tra un gruppo di banditi e ricattatori… Quando abbiamo iniziato a fargli le pulci gli ha dato fastidio. Eravamo invece bravi - «i migliori», anzi – quando mandava i messaggini al nostro Editore chiedendo una troupe perché andava a fare una passeggiata nella movida di Cosenza.
Con gli uffici pubblici e la politica la situazione è analoga, se non peggiore. L’altro giorno una collega s’è occupata dell’occupazione abusiva degli alloggi di edilizia popolare a Catanzaro, voleva intervistare il commissario dell’Aterp. Ovviamente c’erano da fare tutti i passaggi necessari… Perché anche la Calabria ormai è una regione all’avanguardia e pure per gestire le case popolari (che sono quelle sono…) ci si organizza come fossimo in un Ministero. Intervista prima rifiutata: l’addetto stampa ci spiega che siccome non avevamo seguito come testata un convegno promosso dall’Aterp siamo, in pratica, “in punizione”… Protestiamo ovviamente, sono intollerabili certi ricatti. Ci viene assicurata l’intervista, dobbiamo aspettare. Ecco, si può fare l’intervista… Ma non al commissario, l’intervista si fa all’addetto stampa… Sembra surreale, ma è così. Questa è la Calabria. E questa è l’informazione in Calabria.
Un altro collega si è occupato, nei giorni scorsi, dal mare sporco lungo la costa vibonese. Abbiamo ripreso di tutto in acqua: assorbenti, spazzatura, perfino (e non scherziamo) chili di piume di pollame. Siamo andati all’Arpacal, abbiamo provato a chiamare l’addetto stampa che però non ha risposto al telefono. Abbiamo cercato qualcuno che ci spiegasse, abbiamo perfino documentato con una telecamera la nostra presenza all’Arpacal. Ci abbiamo provato, ma non abbiamo trovato nessuno, nessuno ci ha risposto, eabbiamo fatto il nostro servizio, il nostro lavoro, il nostro dovere. L’addetto stampa che non ha risposto al telefono s’è però incazzato e ha rimbrottato via social… Ma la comunicazione di certi uffici pubblici come funziona?
Ovviamente, se un certo atteggiamento caratterizza i vertici della politica che poi fanno nomine a loro immagine e somiglianza nelle aziende-agenzie sub regionali non puoi certo aspettarti qualcosa di diverso.
D’altro canto, credo che parte della responsabilità di tutto questo sia nostra. Perché la maggior parte di noi giornalisti è asservita al potere, al desiderata del potente di turno (e che indossi il doppio petto della politica, una toga o una divisa poco importa). E’ asservita all’amico che alza il telefono. E se c’è l’amico o il potente che chiama te ne fotti del collega, dell’informazione, della deontologia, del rispetto della categoria.
Tralascio le querele temerarie, i processi, gli sbattimenti vari… E’ una vitaccia. La vitaccia di chi prova a dare tutto, ogni giorno, per rendere un servizio alla collettività, ma a cui non viene riconosciuto, quasi mai, il rispetto che merita.