Simone Tropea è un cosentino che vive a Gerusalemme nel cuore del conflitto tra Israele e Palestina. Anzi, per dirla tutta c’è tornato mercoledì perché nei primi giorni dell’offensiva terroristica di Hamas era a Roma per rinnovare i visti necessari al soggiorno. Collega giornalista, ha pubblicato su Avvenire i suoi pezzi da inviato di guerra in Ucraina, e ha seguito da vicino crisi internazionali, dal Sud-America alla Siria, passando per la Brexit in Inghilterra e le proteste sociali in Francia. Classe 1993, ha una formazione filosofica ma ha studiato anche teologia e bioetica.

Dal 2016 si reca regolarmente in Israele per seguire internamente le vicende delle Chiese cristiane e ad oggi collabora con il Christian Media Center, un broadcast televisivo che racconta il cristianesimo in Terra Santa. «La popolazione è scioccata - dice – I tentativi di pace esistono e le Chiese sono impegnate in prima linea. Il Patriarca di Gerusalemme Pizzaballa si è offerto addirittura come ostaggio al posto dei bambini sequestrati da Hamas, ma la mediazione è estremamente difficile».

Simone, come vive la popolazione israeliana questa guerra?
«È arrabbiata perché ha sofferto un attacco di una violenza inaudita. Posso raccontare la storia di un mio conoscente, Yacob, che ha perso la figlia e il nipote. Mi ha detto di avere avuto modo di vedere il corpo di questo bambino decapitato: ‘gli hanno staccato la testa con le mani’, mi ha raccontato distrutto. La popolazione israeliana, come comprenderà, ha supportato in maniera decisa la controffensiva a Gaza, perché dal loro punto di vista l’attacco di Hamas è insensato. Ritengono che abbia come unica motivazione l’odio per l’esistenza di Israele. Considerano la reazione militare come l’unico atto possibile per garantire l’esistenza delle loro vite e della loro nazione».

La percezione che gli israeliani hanno dell’Italia e dell’Europa sul tema palestinese qual è?
«Gli israeliani sono mediamente colti, con una grande cultura democratica alle spalle. Hanno una visione della vita legata alla famiglia, al lavoro, alla festa, non la definirei conservatrice secondo i canoni occidentali. La comunità ebraica di Israele presenta molte componenti, ognuna con caratteristiche specifiche e diversificate. Chi chiamiamo in modo riduttivo “religiosi”, quelli che osservano la Torah, nell’universo dell’ebraismo sono un ventaglio di gruppi che va dagli ultraortodossi, agli ortodossi e fino alle comunità liberali. I liberali, per esempio, accettano pure rabbini donna e coppie omosessuali. In generale, va detto, il senso stesso di appartenenza allo Stato di Israele cambia molto a seconda del gruppo sociale o religioso che si prende in esame. Ecco in questo momento, a tutti loro, dell’opinione pubblica altrui importa veramente poco».

La percezione che gli israeliani hanno dei palestinesi qual è?
«La maggioranza della società israeliana, prima di sabato, non avrebbe avuto problemi a convivere pacificamente con loro. Un’altra parte, minoritaria e forse più ideologizzata, riteneva che ciò non fosse possibile. Adesso è un’incognita. Per tutti bisogna fare i conti con la realtà.»

Lo slogan “due Stati per due popoli” quindi è utopistico?
«Penso che lo accetterebbe la stragrande maggioranza della popolazione se si creassero le condizioni culturali e politiche».

Che vuol dire?
«Parlo di condizioni culturali riferendomi all’esistenza di una reale emancipazione culturale dal sentimento antisraeliano, da parte del mondo arabo, e la creazione di condizioni politiche che portino i palestinesi a un governo palestinese in grado di interloquire seriamente con Israele e Nazioni Unite, senza lasciarsi strumentalizzare o ricattare da terroristi e attori esterni: la conditio sine qua è che sia reale e non fittizio».

Oggi non lo è?
«La Palestina non ha governo, ma un apparato burocratico che rivela forte subordinazione a forze esterne, ostili alla pace. L’ha avuta anche verso il governo israeliano, storicamente, ma la realtà è che va dove tira il vento. In questo momento è in mano ai terroristi».

Cosa ha visto della guerra in questi giorni o di cosa ha contezza?
«Ho visto dolore e delusione in tutti, e per quanto concerne i palestinesi costernazione. Tuttavia, molti palestinesi fanno fatica a dissociarsi da Hamas e slegare legittime rivendicazioni, come quella di una vita migliore, maggiori possibilità di sviluppo sociale, ecc., da ciò che è inequivocabilmente un atto terroristico ingiustificabile».

La sua è una posizione filoisraeliana…
«Che vuol dire? Ho tanti amici palestinesi e tanti amici israeliani. Dico che abbiamo un grande problema culturale. Ad oggi il governo palestinese è corrotto e lascia che Hamas sfrutti la rabbia sociale e si nasconda dietro i civili. Gli arabi israeliani, nel Paese, sono integrati e sono il 20% della popolazione.»

Esiste il razzismo in Israele?
«Sarebbe sbagliato dire che esista in senso strutturale, perché è una comunità multietnica e internazionale. Trovi l’etiope e il russo, l’arabo e l’argentino. Si potrebbe pensare che esista in senso religioso, ma gli ebrei si sentono il popolo eletto e vivono dalla nascita questa diversificazione, non è questione di razza, ma di teologia».

È normale per lei?
«Questa diversificazione non è intesa come superiorità razziale, perché ha a che fare con l’idea di ‘elezione’ che si comprende solo in senso teologico, ripeto. Si auto-percepiscono come l’espressione di una parte dell’umanità che ha la missione di fare presente l’unicità di Dio e svolgere una missione sacerdotale: è tutta un’altra cosa».

Le immagini dell’ospedale di Gaza sono atroci come quelle dei terroristi in azione nel giorno dell’attacco. Si sente in pericolo?
«A Tel Aviv la tensione è palpabile. Quando le sirene suonano e si assiste allo scontro tra un missile proveniente da Gaza e l’antimissilistica israeliana, si genera un’immagine forte perché avviene sopra il tetto delle case. Qui lo scontro purtroppo miete vittime civili e a colpisce luoghi ordinari».

Esisterà ancora la Striscia o siamo ad un punto di non ritorno?
«Questo è molto difficile da dire, perché dipenderà molto dalla resa degli ostaggi e dalle dinamiche geopolitiche internazionali che diventano sempre più visibili, ad iniziare dagli interessi dell’Iran e dalle scelte strategiche dei paesi limitrofi. Gli israeliani non possono vivere con una minaccia interna e in questo sono tutti d’accordo. Se Gaza rappresenterà ancora questo forse non potrà resistere. Per contro dico che se la popolazione di Gaza, è una vera utopia, si dissociasse in toto da Hamas… (sospiro)… sarebbe addirittura possibile eliminare il muro».