VIDEO | Le telecamere dell’antropologo dell’Unical Gianfranco Donadio hanno ripreso per un anno i luoghi del naufragio del 26 febbraio 2023 nel quale sono morte 100 persone. Le testimonianze: «Le mamme sulla spiaggia mi dicevano “salvali” ma recuperavo solo corpi senza vita»
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Il dolore arriva ma arriva da lontano, lentamente, tocca corde nascoste dell’animo. Arriva attraverso la visione di «una grande quantità di scarpe ovunque». Si erano sganciate dai corpi per finire sulla spiaggia di Steccato di Cutro teatro, nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023, di una delle più drammatiche tragedie avvenute in mare. Macerie disseminate per chilometri, pezzi del caicco che si è schiantato su una secca a poche decine di metri dalla costa. Piumoni, biberon, portafogli. Sono i poveri resti di un viaggio partito dalla Turchia. Non si vedranno corpi avvolti nei teli bianchi, nessuna ripresa diretta del dolore. Ma il dolore si farà per altre vie, attraverso le immagini dei familiari delle vittime che raccolgono gli oggetti disseminati sulla sabbia, cercando di riconoscere in loro la presenza di chi non è stato restituito dal mare, mentre la nave è ancora schiantata sulla risacca. E ci sono anche le immagini, non meno disturbanti, di coloro che hanno raccontato la tragedia: del giornalista che chiede ai parenti disperati di ripetere un gesto, di tornare a raccogliere un oggetto, per poterlo filmare meglio.
Da lontano c’è chi ha osservato tutto questo. È proprio lo sguardo di chi osserva da lontano quello che hanno deciso di imprimere al proprio documentario su Cutro, Gianfranco Donadio, ha insegnato Cinema e antropologia all’Unical ed è responsabile di un laboratorio audiovisivo, e Daniele Dottorini, coordinatore del corso di studi in Media e società digitale e docente di Cinema sperimentale.
«Abbiamo deciso di non mostrare dolore e vittime», spiega Donadio. Il progetto è ancora in divenire. Per il momento ha visto la luce “Appunti per un film su Cutro” che riporta una piccolissima parte del materiale che è stato girato nell’arco di quasi un anno ed è stato presentato ad ottobre al Dispes, Dipartimento di scienze politiche e sociali, che ha aperto l’anno accademico sulla tematica dell’immigrazione. Donadio è tornato a Cutro più volte: nell’immediato della tragedia e poi anche nei mesi successivi. Ha monitorato l’evolversi della storia, il mutare dei luoghi. «Sembra un posto senza natura – dice Donadio – non ci sono alberi, non c’è ombra. È un paradosso iconografico». Un luogo che per mesi è stato disseminato di croci. «Le croci si fanno per creare una barriera tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Sono un cordone simbolo di protezione», spiega l’antropologo.
La generosità dei cutresi
«Per tre giorni siamo stati senza mangiare e senza acqua», racconta uno dei sopravvissuti. «Sono stati rifocillati dalla gente del posto – racconta Donadio –. Quello che non hanno fatto i cutresi… Hanno aperto magazzini, vecchi lidi, hanno messo a disposizione tutto quello che avevano». Una dignità che è stata ripresa anche nel discorso di fine anno dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nel documentario si sta cercando anche «di trovare la formula per omaggiare questa sensibilità e generosità».
Tre tipologie di vittime
Il drammatico naufragio, che ha fatto 94 morti accertate e un numero imprecisato di dispersi, tutti viaggiatori di un caicco che trasportava circa 180 persone, «al mio sguardo vede tre tipologie di vittime – dice Donadio –. C’è chi cercava la libertà in Europa e a 100 metri da Cutro ci ha lasciato la pelle. Ci sono gli abitanti di Cutro, testimoni e partecipi della tragedia. Anche loro hanno riportato ferite. I cutresi non sono contenti che il decreto abbia preso il loro nome. Infine ci sono coloro che hanno trattato la vicenda con superficialità. Come il governo Meloni che è andato a Cutro a fare la passerella e poi non ha citato nemmeno en passant la vicenda durante la conferenza stampa di fine anno».
Se «l’estate cancella la tragedia»
Anche quel lungo tratto di spiaggia, in qualche modo, è una vittima. Il prof Donadio se n’è accorto il nove agosto scorso. È tornato per fare le sue riprese e «l’estate aveva cancellato la tragedia», dice. Se ci sono pescatori che non riescono più a tornare in mare o persone che non riescono più a mangiare pesce, ci sono anche turisti e bagnanti che hanno affollato quelle stesse coste come se niente fosse accaduto. Ma, soprattutto, «niente c’era a ricordare la tragedia. Non una lapide, un’aiuola. Bastava anche delimitare un pezzetto di spiaggia per ricordare quello che è accaduto». Donadio si chiede: «E se fossero stati 100 italiani a morire?».
«Chi era in cabina non è tornato più su»
Per tre giorni in una stiva senza bere né mangiare. Centottanta anime, compresi bambini, che dovevano restare nascosti.
«Era mare agitato», dice l’interprete del sopravvissuto pakistano, anche lui con un italiano stentato, mentre il testimone parla. Dice che «quando siamo arrivati vicino a Crotone, Cutro, ci hanno avvisato che tra 15/20 minuti arrivavamo a terra. Lui voleva parcheggiare sulla spiaggia (lo scafista, ndr). Mentre parcheggiava c’era una roccia che ha toccato la nave. E lui di nuovo ha fatto avanti e indietro. Lo scafo si è spaccato. Poi è arrivata un’onda molto forte che ha tirato il traghetto dove l’acqua era più profonda. Quando sono arrivate le onde molto forti hanno spaccato proprio. Sotto in cabina c’era donne, bambini, uomini. Sono rimasti giù. Di quelli che erano sopra qualcuno sapeva nuotare, qualcuno si è aggrappato alle tavole e sono riusciti ad arrivare a terra. Abbiamo acceso le torce dei cellulari e abbiamo chiesto aiuto. C’erano due pescatori e abbiamo subito chiamato i soccorsi. Nel frattempo chi sapeva nuotare è arrivato a riva. Prima nessuno sapeva che noi fossimo là. Quando abbiamo chiamato i soccorsi sono arrivate ambulanze e soccorsi».
Il racconto del pescatore
Gianfranco Donadio racconta che mentre Vincenzo Luciano parlava «io avevo la pelle d’oca e piangevo dietro la telecamera». Luciano sta seduto su una panca, sotto un portico «come se parlasse al mare e all’umanità».
«Io quella mattina ho visto tutto, ho visto tanto. Ho visto la tragedia viva, vera, non quella sul divano. Ma non ho fatto niente. Adesso mi chiamano il pescatore di morti. Ho raccolto solo morti quella mattina. Perché sono arrivato in ritardo. Quando sono arrivato era ancora un po’ buio, pioveva c’era vento. Ero andato a raccogliere le nasse. Sentivo delle urla dalla macchina. Pensavo di avere la radio accesa, ma la radio era spenta. Quando mi sono avvicinato sulla battigia c’erano delle mamme che gridavano. Vedevo cinque o sei persone. Sono sceso dalla macchina, queste mamme mi urlavano e mi dicevano di buttarmi in mare, che c’erano dei corpi. Allora io ho acceso la luce del telefonino e ho visto cinque o sei ragazzi sulla battigia, morti. D’istinto sono andato a prenderli a tirarli perché la risacca se li portava in mare. E quelle mamme mi gridavano ancora, mi dicevano ancora ancora. Mi facevano segno che c’erano dei corpi in mare. Con la luce del telefonino ho visto il corpo di un bambino. Ho buttato il telefono e mi sono lanciato in mare. Io lo sentivo che quel bambino era ancora vivo, mi respirava nelle mani, sono sicuro. Aveva gli occhi aperti. Quando l’ho portato vicino al mio pick up l’ho messo sul sedile ho visto che gli usciva dalla bocca schiuma, sabbia, acqua… Praticamente è morto. Mi è morto nelle braccia. E lì ho capito che la cosa era seria. Ma non avevo il tempo di fermarmi perché ancora quelle mamme mi urlavano che c’erano ancora dei corpi e mi tiravano sulla spiaggia. Perché loro, poveracci, non sapevano nuotare. Gli ho chiuso gli occhi a quel bambino, glieli ho chiusi io. Avrà avuto tre o quattro anni. Un ragazzo di colore, era bellissimo.
Ma non avevo tempo di piangere perché mi spingevano in mare. E io ho tirato ancora tre o quattro corpi. Ma non ce la facevo perché erano troppo pesanti, avevano i giubbini pieni di acqua e sabbia. Mi davano una mano anche gli altri superstiti. A mano a mano che si faceva giorno io guardavo sulla spiaggia: era una distesa di corpi. Mi sono detto “mamma mia, ma quanti corpi ci sono qui. Ma qui è una tragedia”. Ero diventato un robot, era un compito mio tirarli fuori. Ma ero stanco, non ce la facevo più. Per fortuna dopo sono arrivate le forze dell’ordine, è arrivata la Guardia costiera, sono arrivati dei miei amici del posto. Sono arrivati tutti e mi hanno dato una mano. E piano piano hanno cominciato a mettere i corpi nei sacchi bianchi. Io andavo col pick up verso nord e più andavo verso nord e più trovavo corpi sulla battigia. Però se non li prendevi la risacca se li riprendeva».