INTERVISTA | L’ingegnere e attivista messinese che da anni si batte per il Sì all’opera usa questa similitudine per spiegare l’impatto in termini di sviluppo: «Dire che prima servono le altre infrastrutture è una scemenza» (ASCOLTA L'AUDIO)
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Giovanni Mollica fa un salto nel passato, all’epoca di Giustino Fortunato e Francesco De Sanctis, per guardare al futuro. Un futuro che lui non vede senza il ponte sullo Stretto. «Non c’è sviluppo senza coesione, non c’è coesione senza mobilità, non c’è mobilità senza infrastrutture. E questo non lo dico io, lo dicevano due grandi meridionalisti». Ingegnere, messinese e attivista della Rete civica per le infrastrutture, nel corso di una lunga chiacchierata snocciola numeri, nozioni e citazioni, passando più volte dai toni pacati dell’esperto pronto a spiegare a quelli più infervorati del guerriero sul campo di battaglia. «Non esiste al mondo – dice – un’isola con più di 100mila abitanti distante meno di due miglia dal continente che non sia unita stabilmente alla terraferma. La Sicilia è un’eccezione planetaria. La domanda giusta non è “perché si deve fare il ponte”, ma “perché non si deve se tutti gli altri lo hanno fatto?”».
Partiamo da un passaggio dell’intervista che un po’ di tempo fa ha rilasciato proprio a LaC News24. Lei sosteneva che l’obiezione secondo cui il ponte serva più alla Sicilia che alla Calabria sia un’obiezione superata in quanto l’alta velocità fino a Reggio, senza sbocco su Messina, non avrebbe senso. Perché?
«Perché non c’è un bacino di utenza sufficiente. La Calabria è una regione già oggi poco abitata, ma secondo i calcoli fatti sulla base della fuga delle persone entro il 2040 sarà sotto il milione e mezzo. C’è un esodo forzato, da voi così come da noi in Sicilia, che è molto maggiore di quello che appare. Messina fino a trent’anni fa aveva 270mila abitanti e marciava verso i 300mila, al 21 dicembre 2019 ne aveva 227mila, con un esodo di 1850 persone ogni anno. Tra vent’anni scenderà oltre i 200mila. Questo da solo dovrebbe essere un motivo per preoccuparsi».
Intende che la gente va via perché non c’è futuro e il ponte potrebbe rappresentare questo futuro?
«Sa cosa era scritto su un Def di venticinque anni fa? Che i grandi assi trasportistici irradiano sviluppo lungo il loro percorso. Venticinque anni fa. E noi ancora parliamo».
Ma questo sviluppo non dovrebbe passare prima per altre strade, letteralmente?
«Le rispondo subito: no. L’Unione Europea ha ideato più di vent’anni fa la cosiddetta rete Ten-T, che è suddivisa in due tipi di rete: la core network (centrale) e la comprehensive (globale). La prima è fatta dai grandi corridoi, la seconda parte dai nodi dei grandi corridoi per raggiungere le zone più periferiche. La rete centrale deve essere completata entro il 2030, la globale entro il 2050. Come vede, anche l’Europa ha previsto di fare prima i grandi corridoi, poi le reti locali. Pensi ai film del Far West. La prima ferrovia costruita ai tempi della conquista dell’Ovest fu quella che univa la costa atlantica a quella pacifica. Nessuno si sognò di dire che prima di fare la tratta tra Boston e San Francisco bisognava fare la San Francisco-Los Angeles. Era logico: perché con la ferrovia arrivavano la civiltà, i soldi, la legge. Questa è storia dell’economia dei trasporti. Quale ricchezza potrebbe venire alla Calabria dall’unire Rosarno a Gioia Tauro per esempio? Mentre invece se si unisce Napoli con Gioia Tauro è già molto diverso».
Lei dice che il ponte farebbe da traino a tutto il resto?
«Non lo dico io, lo dice l’Europa. Se lei percorre l’autostrada tra Palermo e Messina non vede un camion: i camion non circolano perché non c’è economia. Trova aree di servizio deserte perché quando sono state fatte le gare nessuno le ha volute in quanto non c’è consumo di carburante. Che senso ha pensare alle buche o ad allargare l’autostrada se nessuno ci passa?».
Perché non ritiene valido il sistema dei traghetti?
«C’è una serie di fattori. Prima di tutto: i traghetti sono tra i mezzi più inquinanti che ci siano. Io stesso ho scritto un libro in cui si dimostra, numeri alla mano, che i traghetti inquinano lo Stretto in modo spaventoso. Parliamo di anidride carbonica, di ossido di carbonio, di particolato. Quest’ultimo, peraltro, è un veicolo e un mezzo di mantenimento straordinario per i virus come il Covid. Ci sono oltre 1200 traghetti che settimanalmente vanno avanti e indietro in quel braccio di mare, con emissioni che sarebbero abbattute di percentuali tra il 50 e il 90 per cento se si realizzasse il ponte. Ma questo è soltanto un aspetto. Parliamo degli incidenti con i cetacei. Quanti vengono travolti o perdono l’orientamento a causa dell’inquinamento – acustico certe volte – causato dai traghetti? In altri Paesi gli ambientalisti hanno ottenuto delle regolamentazioni ai traghettamenti, perché qui non ci si occupa di queste cose invece di pensare solo a bloccare il ponte?».
Non c’è però il rischio di un incremento del trasporto su gomma?
«Su questo abbiamo una prescrizione precisa da parte dell’Ue: entro il 2030 dobbiamo trasferire su ferro almeno il 30% dell’attuale traffico su gomma. Attualmente in Sicilia e Calabria le merci vengono trasportate quasi tutte su gomma. Perché? Perché il fatto di perdere due ore per attraversare lo Stretto costringe i produttori ad andare verso il Nord su gomma. Con il ponte questo dato è destinato a cambiare. Non solo: da tempo nei posti raggiunti dall’alta velocità anche le linee aeree sono state abbandonate in favore del treno, che consente un risparmio notevole in termini di emissioni inquinanti. C’è un’intera parte di popolazione che preferisce viaggiare in treno anche se ci mette molto di più, perché impatta meno sull’ambiente».
Passiamo al problema sismico. Sappiamo che il ponte è progettato per resistere alle scosse, ma ci troviamo comunque in zone molto fragili. L’impianto dei piloni in questi territori senza un contestuale piano di messa in sicurezza non rischia di spezzare un equilibrio già precario?
«Primo punto: sia Reggio sia Messina, dopo il terremoto del 1783, sono state ricostruite sulla base di una regolamentazione antisismica che il resto dell’Italia non aveva. Addirittura i piloti americani che la bombardarono nel 1943 definirono Messina “città fantasma” perché dall’alto vedevano gli edifici ancora in piedi. Se è pur vero che un terremoto forte farebbe grossi danni, il tessuto di costruzioni è in realtà più resistente del resto d’Italia. Ma a parte questo, in caso di terremoto il ponte sarebbe il posto più sicuro in tutta l’area dello Stretto perché oscillerebbe senza cadere, avrebbe una struttura elastica. Bisogna partire da un presupposto: quelli che hanno studiato per 50 anni il ponte – e che hanno progettato decine di ponti sospesi in tutto il mondo – hanno cercato le migliori soluzioni».
Però adesso il gruppo di lavoro del Ministero delle Infrastrutture ha tirato di nuovo fuori l’idea del ponte a tre campate.
«La commissione ha scritto quello che voleva il Governo. Il discorso è questo: le attuali maggioranze parlamentari devono tenere conto del parere dei 5 Stelle e anche di una parte del Pd che è d’accordo con loro. Draghi sa bene cosa vuole l’Europa, ma non può oggi mettere a rischio un esecutivo che deve fare cose di importanza vitale per il Paese. Devono tirare avanti per altri due anni, fino alle prossime elezioni quando ci saranno – anche se non è detto – maggioranze stabili che permetteranno di fare quello che si deve fare».
E intanto si spenderanno altri soldi…
«Sono già stati spesi, pensi ai 50 milioni stanziati dall’ex ministro De Micheli per gli studi già prima di conoscere l’esito della relazione. La commissione ha scelto una soluzione che gli consente di tenere aperta la porta, per tornare poi tra tre anni all’idea della campata unica. Per fare il ponte a tre campate, per dirne una, bisognerebbe mettere le pile in mare a una profondità – per come è fatto il fondale dello Stretto – superiore a quella di qualsiasi altra pila in mare sia stata fatta fino a oggi. Si tratterebbe di scendere ad almeno 90-100 metri quando finora non si è mai andati oltre i 60. Tutto ciò, per di più, comporta la necessità di nuovi studi sui fondali che durerebbero 3-4 anni, dopodiché bisogna rifare il progetto. Ci vorrebbero insomma dieci anni per partire e altri dieci per completare l’opera. Il punto è: la Sicilia e la Calabria, da cui stanno scappando tutti, possono aspettare tutto questo tempo?».
Immaginiamo che i lavori partano domani, i materiali di risulta dove finiscono?
«Ecco, su questo aspetto ci sono stati dei passi falsi. La società “Stretto di Messina” ha fatto mille errori, il principale è stato quello di non curarsi del consenso locale. Però sono stati fatti studi accurati. Più volte è stata cambiata la sede di collocazione di questa enorme massa di materiale che verrebbe fuori, non tanto per via delle pile ma per le gallerie ferroviarie. Alla fine i materiali erano stati destinati in parte al ripascimento delle coste, in parte a chiudere degli enormi scavi dove per decenni è stata tratta l’argilla per le fabbriche di laterizi della provincia di Messina. Insomma, dopo molti errori si era trovato un accordo con gli ambientalisti, che in quel caso avevano ragione. Un’ultima cosa però la voglio dire: non bisogna guardare all’inquinamento mentre si fa l’opera perché questo sarà inevitabile. Il ponte creerà inquinamento ma pian piano questo sarà controbilanciato dalla riduzione delle emissioni. Non accadrà subito, ci vorrà tempo e ci saranno sicuramente dei danni, ma serviranno per migliorare dopo».
Ponte sullo Stretto, storia di una storia che non c’è: un miliardo già speso senza vedere nulla