«Era scoppiato un treno. C'erano stati morti e feriti. Ricordo, e mai dimenticherò, l'assedio della nostra casa. I militari entrarono distruggendo tutto e portando via mia madre, accusandola di complicità e collaborazionismo». Oggi Lidia Muggia ha 83 anni e questo episodio, fissato nella memoria di un'infanzia rubatale dalla storia e vissuto quando era solo una bambina, la riporta agli anni trascorsi dentro un casello ferroviario vicino a Pola, nella penisola istriana, quando da sola con sua madre, rimasta prematuramente vedova, e per qualche tempo con il fratello Domenico, visse in mezzo al bosco, circondata. Da una parte i tedeschi e dall'altra i partigiani titini.

Da un lato i tedeschi e dall'altro i partigiani di Tito

Uno stato di assedio, tra due fuochi, in un terra divisa e contesa, tra due volti di una storia a lungo negata e dimenticata. Invece Lidia Muggia non ha mai dimenticato e ricorda ancora con grande ardore e generosità e con il desiderio di condividere e testimoniare. Lo fa presso le scuole e in occasioni di iniziative pubbliche da quando, oltre dieci anni fa, uno dei suoi otto nipoti, Boris, all'epoca alunno della scuola elementare Cassiodoro di Pellaro, in un tema raccontò della nonna esule istriana che aveva conosciuto le persecuzioni degli Italiani, ritenuti tutti fascisti, nell'Istria dell'immediato Secondo Dopoguerra.


Accanto a lei in ogni occasione il marito, ex maresciallo della Guarda di Finanza, Michele Liberti, originario di Oppido Mamertina e conosciuto a Trieste, purtroppo mancato lo scorso anno, dopo 56 anni di vita insieme. Oltre mezzo secolo trascorso quasi interamente nel quartiere di Pellaro, a Reggio Calabria. Sempre al suo fianco anche nel rendere, ogni anno, omaggio alla memoria di Norma Cossetto, con il Comitato 10 febbraio di cui Lidia Muggia è ancora presidente onoraria.

Istriana e italiana, sempre

Racconta instancabilmente Lidia Muggia. Nel suo profondo convivono e convivranno sempre l'esule istriana e la cittadina italiana, tratti orgogliosi e inestricabili di un'unica identità. Lei che ha subito persecuzioni e odio solo a causa delle sue origini; lei che ha conosciuto l'esilio e lo sradicamento, e poi ancora il disprezzo e la paura, non dimentica e, invece, intende testimoniare quanto sia stato importante e necessario, anche se rischioso, difendere la propria identità anche quando rinnegarla sarebbe stato meno pericoloso. Il suo è un flusso di memoria privata e familiare che però rivendica ascolto collettivo perché la sua infanzia vissuta nel terrore, segnata da stenti, stigma e freddo, non è solo la storia di una famiglia istriana ma è anche la storia di una famiglia italiana che ad un tratto non è stata più al sicuro in patria.

Foibe, il giorno del ricordo

È una di quelle storie che per troppi anni sono rimaste sconosciute ai più, raccontate e custodite in famiglia, soffocate nel silenzio e in un oblio colpevole, come se non fossero parte di una storia più universale, come se esistessero persecuzioni e violenze da classificare e ad un tratto da desecretare. Solo dal 2004, con l'istituzione del Giorno del ricordo il 10 febbraio (nel 1947 in questa data fu firmato a Parigi anche il Trattato di Pace che definì in confini di quelle terra tra Italia e Jugoslavia), si iniziò, con un ritardo ingiustificabile, a ricucire uno strappo rimasto sanguinante per sessant'anni. Ci sono persecuzioni diverse tra loro ma le vittime sono sempre tali e la memoria di chi non è sopravvissuto, come la voce di chi invece lo ha fatto, ha un identico e insopprimibile valore. Ogni strumentalizzazione è ignobile. Ogni negazione inaccettabile.

Da una terra ostile all'altra

Nata nell'anno delle leggi razziali emanate in Italia dal regime fascista, il 1938, Lidia Muggia non fu perseguitata perché ebrea ma perché italiana in terra istriana. Da Rovigno d’Istria, oggi territorio croato, dov'è nata, passando per Trieste, irredenta e attraversata dai forti venti di autonomia, fino alla Calabria dove vive da oltre cinquant'anni, la sua vita è stata scandita dall'esodo da una terra ostile ad un'altra, da un esilio scelto per restare italiana e viva, seppure esule e in fuga dalla sua amata Istria, e infine da un nuovo straordinario inizio in un'altra terra di mare come la Calabria.

«Da sola con mia madre in quell'inferno»

Parte del Regno d'Italia, l'Istria è stato un territorio travolto come gli altri da una violenta italianizzazione perpetrata dal regime fascista, anticamera di un odio e di un rancore verso gli italiani esplosi nel Dopoguerra e culminati nel sopravvento della resistenza guidata dal maresciallo Josip Broz, noto come Tito. Un quadro drammatico in cui la popolazione si ritrovò immersa in un clima di grande tensione e violenza. L'inferno era appena all'inizio e Lidia Muggia, orfana di padre e più piccola di quattro figli, trascorse praticamente da sola con la madre Elvira Arido, di origini piemontesi, quegli anni così bui e difficili.

La testimonianza: «Odiati perché italiani»

«Mia madre - racconta Lidia Muggia - era subentrata alle Ferrovie al momento della morte prematura di mio padre Domenico, istriano, avvenuta nel 1941 quando aveva soltanto trentatré anni. Le era stata affidata la custodia di un casello, in mezzo al bosco e  controllato da ogni parte. Aveva solo 28 anni e quattro figli da crescere e mantenere. Noi figli fummo così separati per superare quel momento così duro. Non sapevamo che non saremmo mai più tornati a stare tutti insieme, nonostante mia madre avesse cercato di farlo accadere. La mia sorella più grande, Maddalena, andò dalla nonna materna a Cuneo, mentre l'altra mia sorella Giovanna andò a stare da mia zia.

Mio fratello Domenico visse un pò con me e mia madre al casello e poi dai Frati. Io, soltanto una bambina, e mia madre restammo sempre insieme. Noi e, in quegli anni così difficili, tra il 1943 e il 1945, la paura e il terrore che potesse accaderci qualcosa. Eravamo italiani e come tali eravamo ritenuti tutti fascisti prima che persone e, dunque, odiati. Come dimenticare quei fucili puntati dentro la nostra casa quando mia madre veniva minacciata e costretta a cucinare per l'esercito. In casa ma continuamente in allerta. Una tensione costante anche quando entrava Walter, soldato tedesco che chiamava mia madre 'Mami' ed era gentile. Se ci avessero scoperto non saremmo sopravvissuti. Se quel barlume di umanità fosse stato anche solo intravisto, tutto avremmo pagato il prezzo più alto», racconta ancora Lidia Muggia che poi si sofferma su due episodi nella sua memoria ancora drammaticamente vividi.

«L'esplosione che mi sollevò da terra»

«Ero fuori a giocare. Mia madre mia aveva dato un cucchiaio e mi aveva suggerito di scavare nella terra per scoprire come vivevano le formiche. Lo feci ed entrai per raccontarlo a lei quando sentì un boato che, sollevandomi da terra, mi spostò. Uno dei momenti di paura più intensi che io ricordi. Era stata lanciata una granata, esplosa proprio vicino a dove un attimo prima stavo scavando con il mio cucchiaio per cercare le formiche. Ero davvero piccola ed ebbi una paura grande come quando esplose il treno e mia madre fu portata via per essere interrogata. Fu trattenuta per otto lunghissimi giorni. Io e mio fratello fummo accolti da una famiglia di origine padovana che gestiva una fattoria lì vicino.

Ci conoscevamo perché, mano nella mano, vicini e impauriti, sempre circondati da militari armati, andavamo da loro a prendere il latte. Ricordo che un giorno fummo fermati e perquisiti. Nella nostra borsa trovarono solo il contenitore per il latte. Restammo in questa fattoria fino al ritorno di mia madre che, grazie all'intercessione di un capostazione che contribuì ad identificarla, fu rilasciata. Quando tornammo al casello, però, tutto era distrutto. Non avevamo più la casa. Allora fummo spostati in un vagone bestiame al freddo e al gelo. Tanta neve e poco cibo. Intanto mio fratello non era più con noi. Era dai Frati a Rovigno d'Istria», racconta Lidia Muggia.

Restare e rinnegare oppure andare via per sempre 

«Difficile accettare di vivere nel terrore, pur trovandomi nella mia terra di origine; complicato capire perché quella terra in cui ero nata, da nessuno veniva riconosciuta come mia. Era diventata ostile al punto che un giorno, in piena avanzata dei partigiani Titini nel 1945, fu chiesto a me e a mia madre di scegliere: restare in Istria e rinnegare la nazionalità italiana oppure restare italiane e lasciare tutto, che già era poco perché avevamo dovuto rinunciare ad ogni cosa, per andare via per sempre. Mia madre ed io, come tante altre persone, andammo via. Come dimenticare quelle divise giallo-verdi e quelle stelle rosse così minacciose sui cappelli. Andammo a prendere mio fratello e fuggimmo, con i soli vestiti che avevamo in dosso, lasciando dietro di noi mio padre mancato alcuni anni prima. Con un passaggio di fortuna, arrivammo fino al confine con Trieste.

Avevamo paura che potessero fermarci e arrestarci. Io avevo i soldi che mia madre aveva messo da parte nascosti nel mio calzino. E a Trieste arrivammo tra il 1945 e il 1946. Ma qui la nostra persecuzione non era ancora finita. Qui conoscemmo altre discriminazioni e sentimmo dell'orrore che si consumava nelle foibe. Eravamo vicini a Basovizza, che chiamavano la Grotta gigante dove ci raccontavano che le persone venivano gettate e inghiottite per sempre», racconta ancora Lidia Muggia.

«Costantemente disprezzata e insultata»

«A Trieste la vita fu dura e complicata. Vivemmo prima in una scuola, in una stanza piena di persone e di cimici, poi nella sala d'aspetto della stazione di Sant'Anna e infine in una baracca a Santa Croce dove poi fu costruito il casello dove prestò servizio mia madre. Nel frattempo, nel 1947, all'età di nove anni avevo iniziato a frequentare la scuola Scipio Slatapar e poi quella a Santa Croce. Eravamo nella zona B di Trieste con una importante presenza slava che ancora manifestava rancore e ostilità verso gli italiani, ritenuti tutti fascisti. Io venivo costantemente disprezzata e insultata. Mi chiamavano l'italijanska.

Ancora ricordo il terrore di una sera di settembre del 1953 quando vennero uccisi alcuni giovani. Le tensioni erano alte e lo furono fino al 1954 quando Trieste fu proclamata italiana. Ricordo che io e mio fratello, che aveva una Vespa, andammo in strada a festeggiare sventolando dei cartelloni tricolori che avevamo preso a Duino. L'anno successivo nel 1955, lasciai la scuola per andare a lavorare. Mia madre aveva dovuto mettere gli occhiali e non avrebbe più potuto gestire il passaggio a livello al casello, così le subentrai in Ferrovia. Lavorai per dieci anni. In quel periodo conobbi mio marito e nel 1965 mi sposai», racconta ancora Lidia Muggia.

Da oltre mezzo secolo in Calabria

«Dopo qualche anno in Sicilia, all'inizio degli anni Settanta arrivammo in Calabria, a Melito Porto Salvo prima e poi a Reggio, nella zona di Pellaro dove ho ritrovato il mare che tanto amavo in Istria. Non avrei mai voluto lasciare la mia terra di origine, che mai dimenticherò, ma anche l'Italia è sempre stata la mia patria. L'Istria mi ha dato la vita anche se poi ho patito, anche se ho ancora nelle orecchie le grida di paura e davanti agli occhi mio fratello che con me si nasconde sotto il letto, dappertutto. Sarò sempre fiera delle mie origini che in Italia ho continuato a custodire. Qui ho vissuto il mio lungo e felice matrimonio, qui sono diventata mamma di Giuseppe e Manuela e poi nonna di Andrea, Chiara, Simona, Mascha, Shamira, Boris, Soraya e Yari», racconta ancora Lidia Muggia.

Il ritorno dopo settant'anni e il profumo del pane

La sua famiglia conosce e custodisce la sua storia e che è anche la loro storia ecco perché il nipote Boris in quarta elementare ha scritto di lei ed ecco perché per i suoi 18 anni, la nipote Shamira ha fatto a lei un regalo bellissimo chiedendole di accompagnarla in Istria, nei luoghi in cui era nata e cresciuta e dal quale mancava da settant'anni.

«Mancavo dall'Istria da allora e tornare sette anni fa è stata un'esperienza fortissima, un'emozione immensa. Tutto era cambiato, i luoghi erano tutti diversi ma mentre giravo per quelle strade mi sembrava di sentire l'odore del pane del forno che mio padre e di mio nonno avevano al numero 12 di via Forneto. Poi c'era un richiamo che era stato davvero doloroso non assecondare quando io, mia madre e mio fratello abbandonammo tutto per fuggire. Un richiamo che non si era mai placato. Quello di mio padre, della sua tomba dove per sfregio avevano posto una stella rossa e dove invece mio fratello si era già recato per restituire decoro e mettere una croce. È stato un pò come ritrovarlo, avendolo perso quando avevo solo due anni; è stato come aver ritrovato anche me stessa dopo quasi settant'anni», ha sottolineato Lidia Muggia che per questo ancora racconta e testimonia senza sosta, affinché nessuno rinneghi e nessuno dimentichi.
«Essere italiana è per me la cosa più bella del mondo. Credo che i giovani debbano sapere e debbano capire cosa significhi essere italiani e cosa siano state la guerra e le tensioni sociali di cui è stata portatrice. È giusto che si sappia tutto quanto fatto per difendere l'Italianità da migliaia di persone», ha concluso Lidia Muggia.

L'abisso infernale delle foibe e l'uccisione di migliaia di italiani

Un destino atroce, nel Secondo Dopoguerra, fu quello di migliaia di Italiani residenti in Dalmazia e Venezia Giulia (Trieste, la penisola d'Istria con Pola, Fiume con le isole le isole del Quarnaro Gorizia), lembo di terra lambito dal mar Adriatico Orientale. Nell’epoca dei nazionalismi e dei totalitarismi, l’intolleranza delle popolazioni slave nei confronti degli italiani-fascisti, esacerbata dall'italianizzazione forzata perpetrata dal regime di Mussolini, dopo l'Armistizio di Cassibile (firmato il 3 settembre 1943 ed entrato in vigore l'8), sfociò in un massacro a lungo rimosso e ignorato dalla Storia.

Fosse scavate nel Carso, regione comune ad Italia, Slovenia e Croazia, e altre gole ricavate in territorio istriano, le foibe erano dunque infernali inghiottitoi naturali, dove vennero gettati migliaia di militari e civili italiani (secondo alcune fonti 5000 secondo altre 11000), tra loro anche numerosi calabresi. Molti furono gettati ancora vivi, altri dopo essere stat torturati e fucilati dai partigiani comunisti di Tito che, tra il 1943 e il 1945, attuò una violenta avanzata allo scopo di epurare i territori dai fascisti - tutti gli italiani erano ritenuti tali - e dai collaborazionisti. Orrore e morte in quel tormentato litorale adriatico dove silenziosamente si consumava un massacro che ebbe i contorni netti e drammatici di una pulizia etnica per mano dell’Armata Popolare di Liberazione della Yugoslavia, spinta da chiare mire espansionistiche di stampo comunista e che troppo a lungo rimase taciuta.

La condanna all'esilio

Un inferno scandito da persecuzioni, annegamenti, deportazioni, omicidi di massa. L’immagine più drammatica di questo brutale accanimento furono proprio le foibe dove venne gettata anche la studentessa di origini istriane, Norma Cossetto, medaglia d’oro al Valore Civile, ricordata con una targa presso l’area archeologica “Griso- La boccetta”, in via Torrione a Reggio Calabria. In questo clima di terrore, in migliaia divennero esuli per sfuggire alla repressione e ad una forzata cittadinanza slava. Una condanna all’esilio per sopravvivere e restare italiane e italiani. Tra loro anche Lidia Muggia.

Le iniziative a Reggio Calabria

Nel pomeriggio di oggi, il Giorno del ricordo sarà celebrato a Palazzo San Giorgio, sede dell'amministrazione comunale di Reggio Calabria, nella Sala dei Lampadari Italo Falcomatà dalle 16,30 alle 18,30. Saranno presenti il sindaco f.f. della Città Metropolitana, Carmelo Versace, il sindaco f.f. della Città di Reggio Calabria, Paolo BrunettiSandro Vitale, del Comitato promotore di Venticinqueaprile Ampa - Associazione Meridionale di Partigiani e Antifascisti, Raffaele Malito, giornalista ed Eric Gobetti, storico freelance in collegamento da remoto. L'incontro sarà moderato da Stefano Perri.


Sabato 12 febbraio a Piazza San Giorgio al Corso alle ore 17:30 appuntamento per la fiaccolata in ricordo delle vittime delle foibe, promossa dal Comitato 10 febbraio - Reggio Calabria. La fiaccolata arriverà all'Area Griso-Laboccetta per rendere omaggio alla memoria della studentessa istriana Norma Cossetto.