Li chiamano vittime secondarie. O collaterali. Protagonisti di drammi nei quali si trovano coinvolti solo per il loro legame con la vittima designata: figli soprattutto, ma anche altri familiari o nuovi compagni di vita. Uccisi anche loro, a volte, solo perché nel posto sbagliato al momento sbagliato o per premeditazione. Bambini ammazzati dai loro stessi padri che, pur di non dover accettare di non essere più una famiglia, quella famiglia sono disposti a cancellarla. Oppure utilizzati come strumento di vendetta, l’amore tolto con la forza bruta della violenza a chi si rifiuta di darne, a mamme condannate a sopravvivere alla disperazione più profonda. Tra le vittime secondarie, però, non ci sono solo loro, i morti. Ci sono anche i vivi, quelli che restano. Orfani di femminicidio. Bambine e bambini, ragazze e ragazzi il cui mondo viene sepolto assieme a un genitore, o a entrambi, anche quando uno dei due è ancora in vita. Sono vittime invisibili, quelle di cui quasi mai si parla, di cui nessuno si chiede come stanno e cosa fanno, una volta spenti i riflettori della cronaca. Sono il buio in fondo al tunnel, il caos dopo la tempesta.

Vite oltre la notizia

«Passata l’onda emotiva di ciò che accade e fa notizia, di loro non parla mai nessuno». Giuseppe Lombardo è presidente di Sinapsi, associazione con sede a Marina di Gioiosa Ionica che dal 2021 cura per la Calabria il progetto Respiro. Un nome che richiama il legame con la vita – una vita che deve andare avanti nonostante tutto – dietro al quale si cela un acronimo che sta per Rete di sostegno per percorsi di inclusione e resilienza con gli orfani speciali. Il progetto, che riguarda tutte le regioni del sud Italia, è stato selezionato dall’impresa sociale “Con i bambini” nell’ambito del bando “A braccia aperte” e finanziato con un contributo di 3.300.000 euro.

Un percorso non facile quello di Respiro, perlomeno in Calabria. «Quella degli orfani è una realtà del tutto sconosciuta, non esiste neanche una mappatura». Passato il clamore mediatico e ottenute le risposte alle domande pressanti sul chi e sul come, sul dove e sul perché, queste persone scompaiono. Oltre la notizia, il nulla. Un nulla così profondo e così scuro che anche trovarli, per chi vuole occuparsi di loro, diventa un viaggio avventuroso. «Ce li siamo dovuti andare a cercare uno per uno – racconta Lombardo –. A volte abbiamo chiesto aiuto proprio ai giornalisti, a chi si era occupato di determinati casi, per avere informazioni che ci permettessero di risalire a dove questi ragazzi si trovassero. Abbiamo chiamato Comune per Comune, poi contattato i servizi sociali per poterli prendere in carico». Alla fine in tutta la regione ne hanno individuati 14 (4 dei quali figli di padri uccisi) e presi in carico 9: «Gli altri non siamo riusciti a contattarli perché non abbiamo trovato loro notizie». Sono 51, invece, quelli identificati e classificati come “fuori target”, ossia orfani di casi irrisolti (donne scomparse, suicide, cadute da scale o finestre, vicende tuttora avvolte nel mistero).

Il progetto si occupa di ragazzi fino a 21 anni. «Purtroppo, perché questi sono traumi che rimangono a vita», commenta Lombardo. Ma l’associazione Sinapsi cerca comunque di non lasciarli soli anche dopo l’età limite, di coinvolgerli “a margine” nella promozione delle attività, gruppi di auto-mutuo aiuto e formazione nelle scuole.

Non solo orfani

E poi non ci sono solo gli orfani. «Così come sono invisibili loro sono invisibili anche i familiari – spiega Lombardo –. Nonni o zii che si ritrovano a dover fare da genitori ai nipoti e che non sanno come comportarsi anche a volte per difficoltà economiche ma soprattutto perché queste persone sono costrette dagli eventi ad accogliere bambini e ragazzi traumatizzati quando sono loro stessi traumatizzati dalla perdita di una figlia o di una sorella». Respiro pensa anche a loro.

L’intervento degli operatori avviene per fasi. La prima è quella “in emergenza”, cioè subito dopo il fatto. Si contatta prima di tutto il Comune e poi si avvia l’attività di supporto psicologico a orfani e familiari. «Va intanto comunicata la notizia e poi c’è la preparazione alle varie cose da fare, tipo il rito funebre».

A volte, la notizia ci si ritrova a doverla comunicare molto dopo il fatto. «Ci sono bambini che dopo 6 anni dall’omicidio non hanno ancora nozione di cosa sia successo alla loro mamma perché nessuno glielo ha spiegato – dice Lombardo –. I familiari magari pensavano di proteggerli invece così il trauma è ulteriormente accresciuto».

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Un percorso accidentato

Avvicinarsi a queste persone significa prenderle per mano e accompagnarle per un passaggio instabile, una scogliera a picco su acque nere o un ponte tibetano sospeso su correnti furiose. Un cammino da percorrere a piccoli passi calibrati. Spesso le difficoltà maggiori si hanno proprio con i ragazzi più grandi che «non vogliono fare i conti con il crimine di cui sono anche loro vittime». Mentre, aggiunge Lombardo, «con i bimbi di solito è più semplice nonostante il trauma sia enorme». E c’è anche il rischio di una «ritraumatizzazione» quando ci sono conflitti nelle famiglie che dovrebbero accogliere i ragazzi. Poi c’è chi addirittura ha assistito all’omicidio, e lì la situazione è ovviamente ancora più complicata da affrontare.

Gli operatori dell’associazione si occupano anche di preparare il rientro a scuola. Oltre a organizzare, nelle scuole stesse e non solo, iniziative di sensibilizzazione e laboratori. Non sono in molti, sparsi in diverse città della regione, a doversi occupare di tutto il territorio calabrese: «Siamo una ventina, ma fortunatamente facciamo rete con altre realtà», sottolinea il presidente di Sinapsi. Ci sono psicologi, assistenti sociali ma anche avvocati: «Molte vittime per esempio hanno la tutela legale ma non sanno di averla, allora si offre loro supporto per usufruirne».

A questo si aggiungono gli incontri protetti con il genitore finito in carcere. E, racconta Lombardo, gli orfani non sempre hanno voglia o necessità di fare quell’incontro: «Parliamo di minori che hanno bisogno di ripristinare il loro senso di sicurezza e un istituto penitenziario non è proprio un ambiente adatto a questo scopo. L’obiettivo primario per noi è quello di tutelare i bambini e seguiamo attentamente tutte le fasi affinché questo avvenga».

Dal progetto alla prassi

Un lavoro non facile quello degli operatori del progetto, anche perché spesso il budget non basta per tutto, ma loro non se ne lamentano: «Il fondo è destinato soprattutto a finanziare le necessità dei ragazzi: libri, computer, anche viaggi. Ed è giusto così», evidenzia il coordinatore.

La durata di Respiro è quattro anni. Davanti, ne ha ancora due. E poi? «L’obiettivo è creare delle linee guida omogenee regionali e interregionali – afferma Lombardo – in modo da poterci muovere di qui in avanti con un protocollo. Insomma, puntiamo a far diventare quello che adesso è solo un progetto la prassi».