Il docente che dirige l’Istituto per la storia del Risorgimento italiano riflette sul momento politico a partire dalle polemiche sul Manifesto di Ventotene. E non crede a un possibile ritorno del fascismo: «La nostra Costituzione ha i giusti anticorpi ma, come per tutti i vaccini, i richiami sono necessari»
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Giuseppe Ferraro, dottore di ricerca presso l’Università degli studi della Repubblica di San Marino, è docente di Storia e Filosofia. Dal 2018 è membro del Centro studi “Paolo Prodi” per la Storia costituzionale (Università di Bologna). Cultore della materia presso l’Università del Salento. È deputato di Storia patria per la Calabria, redattore in diverse riviste scientifiche.
Collabora con il Dizionario biografico degli italiani della Treccani. La sua attività riguarda anche la Didattica della storia e la formazione docenti. Socio onorario Aiparc, attualmente è direttore dell’Istituto per la storia del Risorgimento Italiano-Comitato Provinciale di Cosenza.
Lei fa parte del comitato scientifico e del consiglio direttivo dell’Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea. Chi meglio di lei può dirci una parola chiara sulla polemica legata alla messa in discussione del manifesto di Ventotene da parte della presidente del Consiglio.
«Il fragore mediatico e la polemica politica generatasi attorno alle considerazioni espresse dalla premier in relazione al manifesto di Ventotene non aiutano ad accostarsi a questo documento con la giusta attenzione. Si tratta di un documento infatti centrale per la storia della nostra democrazia repubblicana e quella dell’Unione europea. Credo quindi opportuno rispondere a questa domanda “pensando storicamente”».
La storia ci fornisce infatti più chiavi di lettura.
«Sì, più chiavi di letteratura, interpretazioni e narrazioni utili non solo a livello intellettuale, ma anche di cittadinanza. La storia ha un intrinseco valore civile. Andiamo al Manifesto di Ventotene: si tratta di un documento antifascista e contro ogni regime (non mancano anche delle stoccate verso la Russia); nato all’interno di un piccolo spazio geografico, l’isola di Ventotene, una prigione a cielo aperto, dove il regime fascista destinava al confino i suoi oppositori. Siamo nel 1941: l’Europa ha visto in pochi anni l’affermazione politico-militare di nazisti e fascisti. Solo l’Inghilterra è riuscita a resistere a questa invasione materiale e ideologica iniziata nel 1939. Da poco è entrata in guerra contro i regimi nazi-fascisti l’Unione sovietica».
Progressisti, democratici e liberali vivono un incubo…
«… ma nello stesso tempo non rinunciano a sognare l’avvento di una nuova realtà politica in cui i regimi totalitari saranno sconfitti e si potranno di nuovo affermare i principi della libertà. Ovviamente ho un po' reso discorsivo il contesto storico del momento. Ma non è sbagliato pensare che quanto sopra delineato faccia realmente da cornice e humus alla redazione del Manifesto di Ventotene. Un documento, quello di Ventotene, che negli anni della distopia della Seconda guerra mondiale, concepisce un’utopia, che in parte si concretizzerà: la nascita di un’Europa libera e nel futuro in parte unita attorno ai principi democratici».
Il Manifesto di Ventotene, è importante ricordarlo, parla di libertà.
«Esatto, ma in un contesto storico (1941) in cui i popoli europei, con grandi tradizioni culturali e politiche, non solo sono in conflitto, come spesso era capitato anche nei secoli precedenti, ma lo fanno in una dimensione ancora più drammatica: l’annullamento-distruzione totale del nemico in guerra, ma anche del diverso razzialmente. Poi dietro quel manifesto ci sono tre giovani, perseguitati dal fascismo, certamente con le proprie fedi politiche, le loro ideologie rivoluzionarie di varia matrice, alcune oggi non prive di evidenti contraddizioni rispetto alle sensibilità politiche poi affermatesi nel secondo Novecento, anche con idee magari confuse sul tipo di rivoluzione-cambiamento da portare avanti nel momento in cui i regimi totalitari fossero stati sconfitti. Ma questo non toglie nulla alla ricchezza di quel documento. Gli estensori del documento hanno la resilienza ed anche il coraggio, permettetemi di dirlo (molti sono morti per aver affermato questi principi che per noi oggi sono scontati), di mettere nero su bianco l’importanza di quei principi che le dittature negli anni Venti e Trenta avevano obliato: la libertà, il “valore permanente dello spirito critico”, la democrazia e la solidarietà».
Pensano una riorganizzazione federale dell’Europa.
«E affermano l’importanza di applicare in maniera imparziale le leggi, che tutti i cittadini debbano avere la possibilità di partecipare realmente alla vita dello Stato, che le credenze religiose dovranno essere ugualmente rispettate. Sono contro la guerra, i dogmi da accettare per paura. Sono contro la divinizzazione dei capi politici. Vogliono una società più giusta e solidale. Vogliono il crollo, la sconfitta della Germania nazista, ma non ripetere gli errori dei trattati di pace a seguito del primo conflitto mondiale. Mi pare che nel Manifesto sia esplicitamente evidenziato che la Germania non si sarebbe dovuta frammentare e nemmeno mettergli la corda alla gola come si era fatto nel 1918, avvantaggiando la propaganda politica dei nazisti contro la Repubblica di Weimar».
Poi parlano di rivoluzione, abolizione della proprietà privata…
«Forse glielo possiamo pure perdonare, giusto per scherzare. Insomma Spinelli, Rossi e Colorni, sono figli del loro tempo, di un tempo dove ancora le opzioni politiche in campo potevano essere tante e nessuno conosceva la ricetta democratica più sicura, sempre se questa esiste realmente. Infatti per decenni alcune forze politiche hanno visto anche nell’opzione rivoluzionaria una possibilità per giungere ad una democrazia matura più egualitaria, magari abolendo la proprietà privata, etc etc. Tutte cose che oggi stridono magari con le nostre sensibilità, modelli politici attuali. Una volta finita la guerra hanno scelto però il “partito” della libertà e della democrazia, andando a rappresentarle anche nelle sedi più istituzionali – Spinelli ad esempio - nel parlamento europeo e italiano. Rossi, se non sbaglio, è stato sottosegretario per il partito d’azione».
E avviamoci alla fine di questa lunga prima parte.
«Concludo: questi documenti vanno saputi contestualizzare, evitando presentismi, che il presente fagociti il passato, oppure leggere il passato con la realtà di oggi, con gli occhi del conflitto ideologico. Forse su questo gli esponenti della nostra classe politica dovrebbero fare maggiore attenzione, la storia è un materiale serio e pericoloso, oltre che affascinante, ma va gestito bene».
Intanto l’Europa si trova improvvisamente lontana dagli Usa per scelta del presidente americano. Quale sarà il futuro dell’Unione? Con quali alleanze?
«Gran parte dell’Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale è rimasta ancorata all’interno di un sistema politico, economico, culturale e valoriale filo americano. Polo che ha attratto via via anche molti Paesi che ricadevano nell’orbita sovietica. La tragedia della guerra e la paura del comunismo hanno reso spesso questo legame non solo un’opportunità, ma anche una necessità. Tutto questo ha avuto dei pro e dei contro. Non penso che oltre alla propaganda politica per esaltare il proprio elettorato, unita a qualche guerriglia commerciale e finanziaria, Trump abbia intenzione di rompere realmente questo matrimonio con l’Europa. Si tratta di un matrimonio che non è privo di contraddizioni, ma che serve anche ad una potenza, come gli Usa, che un tempo era mondiale, l’unica gendarme del mondo, ma ora non lo è più».
Questa potrebbe essere l’occasione per l’Europa per una profonda riflessione.
«L’Europa dovrebbe, grazie proprio alle contraddizioni di questo rapporto con gli altri, e non solo con gli Usa, ripensarsi, ridare vitalità ad alcuni valori che sono stati alla base del sogno di una casa comune. Forse negli anni questi valori sono stati un po' schiacciati o resi più marginali da preoccupazioni e interessi di natura economica-finanziaria (subito ci infiammiamo sui dazi? Facciamo lo stesso sui valori?). Basta vedere le biografie dei padri dell’Europa e capire che ci sono valori che danno energia e fondamento anche alle questioni materiali, ma devono venire prima e non dopo quelli finanziari e di equilibrio. Alcuni padri dell’Europa unita, tra cui De Gasperi, sono personalità nate in territorio di confine dove le tragedie del Novecento sono state le più drammatiche, i loro valori per questo erano davvero sentiti: la pace, la solidarietà, la libertà, “dove passano le merci non circolano le armi”. Tutto questo forse andrebbe maggiormente ricordato dai decisori politici europei. Forse all’Europa in questo momento serve ridare linfa a questa narrazione».
La Calabria in questo straordinario e imprevedibile momento storico si trova a dover affrontare la crisi della natalità e lo spopolamento devastante dei suoi comuni. Le conseguenze possono essere veramente gravi per il futuro della nostra regione.
«La Calabria si spopola, soprattutto mi sembra che su alcune grandi problematiche il tempo non sia passato. Ne cito solo una che tocca tutto e tutti: la sanità. Sento di molti cambiamenti, ma su questo aspetto la nostra classe dirigente dovrebbe davvero riflettere molto e a fondo. Un territorio senza servizi è destinato alla marginalità e alla subalternità, oltre al tracollo demografico. Peggio, moralmente ed eticamente, se i servizi e le opportunità che mancano ledono la dignità umana, come la possibilità di curarsi vicino casa, accanto ai propri affetti, senza ulteriori spese rispetto quelle che già una malattia comporta».
Si parlava di natalità e spopolamento…
«…e sono andato a finire alla sanità, ma è un tema che sento molto umanamente. Ma non è del tutto incongruente aver parlato della sanità. Spopolamento, sanità, servizi, sono dimensioni che si intrecciano, si richiamano. La necessità porta ad andare via, lasciare la Calabria, tra le necessità purtroppo non abbiamo solo quelle del lavoro, ma anche della salute. Ancora oggi noi siamo di fronte ad una realtà territoriale bella, ricca di risorse naturali, con un patrimonio culturale importante, ma tutto questo è in contrasto con la realtà quotidiana delle persone che vogliono strade, ospedali efficienti, un’amministrazione solerte, la dignità del lavoro».
Un “paradiso” ma spesso percepito come un “inferno” per chi ci vive.
«La domanda mi ha fatto venire in mente un mio libro sulla Calabria dei primi anni dell’unificazione nazionale. Il nostro territorio appariva come un paradiso naturale, ma abitato da sudditi che anche per espletare le necessità più ordinarie incontravano problemi. Un territorio premiato dalla natura e dalla storia, ma reso critico dalle mancate riforme e cambiamenti sociali: natura felice e storia penalizzante, un binomio che ancora oggi ci deve fare riflettere.
Ultima cosa: una Calabria che si svuota significa anche un territorio che non si racconta, con sempre meno persone che la vogliono narrare, raccontare e perché no anche criticare. Questo dato culturale e socialmente-politicamente non secondario».
Lei è un esperto di storia dei regimi punitivi e del fascismo. Oggi i sistemi democratici sembrano in crisi, mentre si affermano con sempre più forza i sistemi autoritari. C’è il rischio di un ritorno ai totalitarismi?
«Non penso che il fascismo ritornerà. È stato un periodo storico drammaticamente e tragicamente troppo serio per pensare di farlo tornare. Ma si possono verificare congiunture storiche e politiche che favoriscono l’affermarsi di modelli politici autocratici, che limitano le libertà, rendono le democrazie svuotate di senso. La nostra costituzione e la storia della Seconda guerra mondiale, connessa a quella del Ventennio, dovrebbero essere dei buoni anticorpi. Ma come tutti i vaccini meglio fare dei richiami ogni tanto, con lo studio e la conoscenza del fascismo….».
Le preoccupazioni però sono tante. Il futuro si fa minaccioso per le democrazie.
«E io faccio un’altra riflessione. Ma siamo sicuri che, distopicamente parlando, un futuro regime totalitario si ripresenterà con le stesse caratteristiche, formule, modelli, di quelli sperimentati negli anni venti e trenta del XX secolo. Penso proprio di no. A me fa molto riflettere la possibile affermazione di meccanismi, modelli di pensiero e comunicazione, sistemi di governo, che negano la libertà proprio nel momento in cui viene maggiormente sbandierata».
La libertà è il grande valore di decidere, autodeterminarsi, orientarsi, partecipare e criticare.
«Ed è proprio così. Ma siamo sicuri che nel flusso dei social tutto questo può avvenire? Che i nostri sistemi elettorali, che sono certamente abbastanza democratici, assicurano però abbastanza libertà e partecipazione? Siamo sicuri che le generazioni immerse in questo grande flusso di notizie e narrazioni siano capaci di agire liberamente, informarsi, decidere, partecipare, costruire un alfabeto critico con cui decodificare la realtà in cui vivono. Potrebbe sembrare fantascienza, ma penso ci sono altri mezzi e modi per instaurare regimi che negano o condizionano, vincolano o privano la libertà. Ecco perché abbiamo bisogno di cittadini pensanti, attivi, consapevoli e resilienti. Potenziando scuole e università si possono evitare processi che in un modo, forse un po' esagerato e provocatorio, ho voluto prima delineare. Una cosa: non so però se ai vari decisori politici questo potenziare la formazione scolastica e universitaria come antidoto alle derive politiche possa piacere. È un dubbio».