Un palazzetto riadattato a camera ardente e meta di pellegrinaggi da mezza Europa, un Consiglio dei ministri in “trasferta” e blindato in zona rossa, una spiaggia diventata cimitero prima e luogo di raccoglimento e protesta poi: la drammatica quotidianità della “rotta turca” ha varcato i confini regionali solo dopo il disastro di Steccato di Cutro.

Cento morti allineati su un campo da basket che hanno portato al centro dell’attenzione globale uno dei flussi migratori più imponenti (e continui) per l’ingresso in Europa. Un esercito di disperati composto in buona parte da famiglie e da minori non accompagnati, in arrivo sulle spiagge dello Jonio con numeri anno per anno sempre più consistenti, che i calabresi hanno imparato a conoscere e ad accogliere da più di venti anni.

Risalgono alla fine dei ’90 infatti i primi sbarchi “autonomi” sulle spiagge del reggino che guardano alla Grecia: un flusso cresciuto molto nei numeri ma rimasto pressoché identico nelle modalità e che, ancora catalogato sotto la voce “emergenza”, si trascina dietro problemi antichi che continuano a gravare sulle spalle dei singoli comuni, Roccella in testa. Sono due, al netto dei mille rivoli in cui si disperde il sistema italiano, le fasi i cui si divide l’accoglienza ai migranti. La prima, quella cioè immediatamente successiva agli sbarchi, in cui i migranti vengono curati, rifocillati e identificati, e la seconda, in cui rifugiati e richiedenti asilo vengono inseriti in contesti urbani che ne favoriscono l’integrazione.

Sull’onda dell’emergenza

E se nell’accoglienza a lungo termine gli esempi di positiva integrazione con riverberi positivi su tutto il territorio sono sempre più frequenti, nella fase che segue l’arrivo in Italia dei barchini, le criticità continuano a essere tante, spesso attenuate dalla generosità degli abitanti del paese “di turno” (negli anni, quasi tutti i paesi della costa jonica tra Crotone e Reggio hanno ospitato almeno uno sbarco), in fila per portare generi di conforto. Palese il caso dei superstiti della strage di Cutro, “ospitati” inizialmente in due padiglioni fatiscenti del Cara di Sant’Anna, e trasferiti in albergo a furor di popolo dopo le denunce di due parlamentari che avevano sottolineato la totale inadeguatezza della struttura.

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Problemi simili a quelli che registra anche Roccella, un centinaio di chilometri più a sud. Qui, in attesa che il Governo istituisca l’Hotspot (caricandosene anche costi e organizzazione) la prima accoglienza è lasciata nelle mani dell’amministrazione comunale di un paese di 6mila abitanti. È una grande tenda di plastica fornita dalla Croce Rossa e allestita sulla banchina sud del porto la prima “casa” europea delle persone arrivate dal mare. Con il caldo soffocante dell’estate e sotto il vento gelido d’inverno, i migranti (così come gli operatori delle forze dell’ordine e i volontari che gestiscono la struttura rendendo tutto possibile) passano diversi giorni prima di essere trasferiti. E quando gli sbarchi si concentrano in pochi giorni superando le capacità del tendone – l’ultimo barcone, la settimana scorsa, è arrivato con il suo carico di 650 persone direttamente in porto dopo avere eluso i controlli in mare, finendo la sua corsa su un altro barchino che era stato utilizzato nei giorni precedenti per un altro viaggio della speranza – l’unica strada percorribile resta quella di chiedere aiuto ai paesi vicini. Nell’ultima settimana di marzo, gli oltre mille arrivi sono stati smistati tra Stilo, Siderno superiore, Caulonia e Ardore. Fino a Reggio, dove 85 persone sono state ospitate fino pochi giorni fa nel palazzetto dello sport di Pellaro. E nei palazzetti erano stati ricavati alloggi di fortuna anche a Caulonia e Ardore, mentre i più “fortunati” sono stati dirottati a Siderno e a Stilo, nei locali di una scuola in disuso. Dei 70 inizialmente trasferiti nella città di Campanella, sono rimasti in 52, in attesa di essere nuovamente ricollocati.

La Calabria che accoglie

Oltre le criticità della prima accoglienza però, sono tanti gli esempi di integrazione virtuosa che, negli anni, hanno consentito la “fusione” delle masse migranti con i calabresi. Come a Camini, dove i circa 500 abitanti autoctoni, dal 2011, dividono il paese arroccato sulle colline della Locride, con circa 150 stranieri. Sono due i progetti avviati in pase: uno, il più grande, gestito dalla Coop “Jungimundu” rientra nel circuito Sai di accoglienza ordinaria, l’altro, il più giovane, curato dall’associazione “Mamma Giulia accoglie” nel circuito emergenziale Cas. Entrambi hanno sposato il concetto di accoglienza in case singole, evitando le maxi strutture accentratrici e alienanti che riducono costi a scapito della funzionalità dell’intero progetto. 118 le persone che occupano gli alloggi della Jungimundu. Vengono dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Pakistan, qualcuno anche dalla Libia. In genere si fermano per due anni, ma più di una famiglia, una volta uscita dal progetto, è rimasta a vivere a qui. Il loro arrivo ha rivoluzionato un paese che si stava spegnendo per lo spopolamento.

Sono tornate le scuole, ha riaperto con continuità l’ufficio postale, sono spuntati anche un paio di negozi che si aggiungono ai laboratori gestiti direttamente dalla coop. In quello di tessitura, sono stati costruiti tre telai a mano sui modelli di quelli del passato, e le bluse e gli abiti stampati con i colori naturali stanno per sbarcare anche sul mercato online. In tutto sono 40 gli abitanti di Camini che hanno trovato lavoro nel loro paese all’interno della cooperativa, evitando così di migrare a loro volta. E altri dieci lavorano nell’altra associazione che risponde al circuito Cas. Operativi dal 2014 garantiscono accoglienza per 30 persone. Da qui è passata con la sua famiglia anche la piccola Splendore, la bimba siriana nata su un barcone soccorso 80 miglia al largo di Roccella nel novembre del 2021. «Sono andati in Germania dopo qualche tempo – raccontano negli uffici dell’associazione – ma ci sono entrati nel cuore e con la madre della piccola ci sentiamo spesso».