VIDEO | Presentato a Roma il primo Rapporto sulle mafie nell’era digitale. La criminalità organizzata si è adattata ai nuovi modi di comunicare e si è spostata sui social, dove crea da sola il racconto di una vita tra lusso e potere
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Facebook è la Tv generalista delle mafie, Instagram è la loro rivista patinata, Tik Tok è il loro reality show. Anche le organizzazioni criminali si sono adattate ai cambiamenti della società e oggi non si nascondono, non tutte almeno, ma anzi esibiscono il loro potere e il lusso che viene dai guadagni delle loro attività illecite. È sui social che oggi le mafie fanno proseliti, creano consenso e desiderio di emulazione. La mafia è un brand e i rampolli delle famiglie criminali sono i suoi influencer.
Marcello Ravveduto, storico e docente di Digital Public History all’Università di Salerno, è uno dei maggiori esperti di come le mafie comunicano e rappresentano sé stesse. Giovedì 2 marzo è stato presentato a Roma il primo Rapporto sulle Mafie nell’era digitale, la ricerca di Ravveduto sui nuovi linguaggi della criminalità, promossa dalla Fondazione Magna Grecia.
Grazie ai social i mafiosi possono raccontarsi senza intermediazione. La narrazione della vita criminale si può fare senza i giornalisti, il cinema, la tv. È auto-narrazione. Perché il controllo del territorio reale oggi deve necessariamente passare per il controllo del territorio virtuali. Le mafie sono diventate “trasparenti”, niente più stragi, niente più omicidi eccellenti, meno violenza sfacciata.
Eppure sono nascoste sotto gli occhi di tutti. Sui social.
«Oggi le mafie sono ibride e flessibili» ha detto Antonio Nicaso, tra i massimi esperti di ‘ndrangheta al mondo «potrebbero continuare ad esistere senza più compiere azioni sanguinose, solo ricordando al mondo di esserci usando uno strumento potente come il digitale. La comunicazione digitale delle organizzazioni criminali oggi ha il suo codice e i concetti fondamentali sono rispetto e onore».
Come si distingue il contenuto di una top model da quello di un mafioso se entrambi mostrano lo stesso lusso, le stesse auto, gli stessi viaggi? Semplice, non si può. O almeno l’algoritmo non può distinguerli e lascia così campo libero alla sfrontata rappresentazione del potere mafioso sui social media, Tik Tok in primis, dove soprattutto la camorra e i clan romani (mafia siciliana e ‘ndrangheta calabrese sono ancora restie ad esporsi online) mettono in scena la rappresentazione della vita criminale tra hashtag dedicati, musica trap e neomelodica ed emoticon.
Tutto sfugge all’algoritmo, ma tutto è codice di comunicazione: le catene rappresentano il carcere o il legame indissolubile tra il marito carcerato e la moglie, la goccia di sangue il patto di fratellanza, la fiamma è una minaccia, la clessidra è l’avvertimento che qualcosa sta per succedere
«È il legame tra innovazione e passato» spiega Marcello Ravveduto «Hashtag, musica ed emoticon sono elementi da sempre nel gergo criminale. Le mafie hanno sempre parlato attraverso segni grafici, parole in codice e significati nascosti. Loro sono in grado di ricostruire l’immaginario dei vecchi media con i nuovi media creando una rappresentazione che tiene insieme passato e presente, costruendo il mafioso del futuro».
Alla ricerca ha collaborato anche la Direzione Investigativa Antimafia.
«Oggi le mafie non sono più coppola e lupara, esplosivo e kalashnikov» ha detto il direttore Maurizio Vallone «ma capacità di agire nei mercati digitali, delle criptovalute, di usare piattaforme criptate per comunicare e addirittura creare attività imprenditoriali nel Metaverso. Da sempre le organizzazioni criminali si avvalgono di professionisti esterni, oggi invece i capimafia degli anni ’80 hanno mandato i loro figli nelle migliori università italiane e straniere. Sono loro, oggi, i professionisti esperti e sono interni. Affiliati». «Solo attraverso la conoscenza di questi contesti si può costruire una risposta, una narrazione che renda anche la legalità attraente» ha concluso il presidente della Fondazione Magna Grecia Nino Foti.