«Giuseppe Pinelli era una persona che viveva attivamente il suo tempo, un tempo di speranze e di profondi cambiamenti sociali. Impegnato nella politica e nel sindacato, avendo vissuto e combattuto il fascismo e la guerra da partigiano, credeva fermamente che un mondo diverso sarebbe stato possibile e si batteva perché quella possibilità venisse colta e messa a frutto. Lo faceva confrontandosi con il mondo studentesco di allora, che si ribellava alle leggi patriarcali e chiedeva un diritto allo studio per tutti, come i lavoratori chiedevano un lavoro per tutti».

Così Claudia Pinelli, a Reggio Calabria su invito del centro Angelina Cartella di Gallico, in occasione della proiezione del film "Pino, Vita accidentale di un anarchico", diretto da Claudia Cipriani e alla cui realizzazione ha partecipato con la sorella Silvia, parla di suo padre Pino, ferroviere anarchico animatore del circolo Ponte della Ghisolfa, morto nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, in circostanze mai chiarite, precipitando dal quarto piano della questura di Milano. Era stato convocato dal commissario Luigi Calabresi, incaricato delle indagini sulla strage di Piazza Fontana, quello stesso 12 dicembre poco dopo l'esplosione infernale della bomba posta alla Banca Nazionale dell'Agricoltura. Mentre le indagini venivano subito orientate verso la pista anarchica, quella strage segnava l'inizio della terribile stagione di terrorismo e morte che attraversò il nostro paese, l'inizio degli anni di Piombo, degli anni bui per la storia dell'Italia che inghiottirono la verità sulla morte di Giuseppe Pinelli, senza però oscurarne la vita e l'impegno politico e sociale che l'aveva contraddistinta.

A Reggio Calabria, Claudia Pinelli si è intrattenuta con il pubblico parlando del film e ricordando il padre Pino, di cui lo stesso racconto per immagini traccia in modo originale e incisivo il profilo umano di uomo, anarchico, ferroviere, sindacalista e un tempo anche partigiano, morto da innocente, dopo giorni di interrogatorio ad opera del commissario Luigi Calabresi e di altri agenti dentro la questura di Milano.

Pinelli «morto da innocente perché anarchico»

«Giuseppe Pinelli era un anarchico ed è morto perché era un anarchico. Cercava attraverso lo studio e l'approfondimento di capire se una lotta non violenta potesse portare a una società diversa. Tanti giovani di allora, oggi adulti, mi raccontano di essere entrati nei circoli anarchici convinti così di fare la rivoluzione e di avere capito, dopo avere incontrato mio padre e letto dei libri che lui aveva invitato a sfogliare, che la rivoluzione violenta avrebbe solo sostituito un potere con un altro potere e questo a un anarchico non interessa», racconta la figlia Claudia Pinelli.

Soltanto nel 1975 nella vicenda giudiziaria sulla morte di Pinelli, si giunse all'esclusione del suicidio ma anche l'omicidio, scrivendo nero su bianco che Pinelli sarebbe stato colto da un "malore attivo", prima di precipitare dal quarto piano della questura milanese. Una sentenza che, purtroppo non dissolveva il mistero e non restituiva alcuna verità su ciò che accadde realmente in quella stanza quella notte. Una stanza che, come una grotta che penetra la roccia fa a meno della luce, resta avvolta nelle tenebre. Nessun suicidio, nessun omicidio eppure tutti coloro che avevano dichiarato il falso, affermando che Pinelli si era buttato dalla finestra, che dunque avevano mentito, per altro ricoprendo incarichi ufficiali, non furono mai chiamati a rispondere di alcun reato. Perché? Una domanda, come tante altre purtroppo, senza risposte e che anche il film di Claudia Cipriani opportunamente ripropone. Nel 1975 questa sentenza e quasi vent'anni quella che riconobbe Giuseppe Pinelli estraneo ai fatti di piazza Fontana. Ma intanto Pino non c'era già più.

Caso Pinelli, giustizia e verità

«Mia madre ha dato, secondo me, una bella definizione di Giustizia. Lei ritiene che la Giustizia non sia quella dei tribunali ma quella determinata dal fatto che tutti sappiano la verità. A noi interessa che si sappia quello che è avvenuto, perché è morto Pino, che cosa sia successo in questura quella notte, perché una persona entrata in questura con il suo motorino, dopo la negazione di ogni suo diritto, è morta precipitando da una finestra. Nessuno deve morire com'è morto mio padre, dopo essere entrato in una questura. Per questo il nostro impegno di testimonianza che è in sé un modo di resistere all'oblio. Avere memoria vuol dire essere resistenti, perché nel momento in cui si cancella la memoria, si cancella l'identità e invece è importante capire che, se anche i fatti storici non si ripetono mai uguali a loro stessi, certi meccanismi invece vengono reiterati e bisogna imparare a riconoscerli per salvaguardare il futuro. Nel nostro Paese, ma non solo nel nostro Paese, devi affrontare anni di processi e di ingiustizie per poi approdare al nulla. Il protrarsi del tempo viene usato per diluire l'indignazione, per questo bisogna essere resistenti», spiega ancora Claudia, figlia di Pino Pinelli.

«Le Istituzioni devono confrontarsi con la storia di Pino»

Il cammino verso la verità e complesso e doloroso ma necessario e ancora oggi incompiuto. Necessario è il confronto con le Istituzioni, per questo Claudia, Silvia e la madre Licia Rognini hanno deciso di andare nel 2009 dal presidente Giorgio Napolitano e poi nel 2019 dal presidente Sergio Mattarella. Hanno accolto l'invito della massima carica dello Stato che nel quarantesimo e nel cinquantesimo della strage di Piazza Fontana hanno voluto incontrarle per ricordare Giuseppe Pinelli, innocente e dunque vittima della strage di piazza Fontana, la diciottesima vittima di quell'inferno.

«In questo confronto c'è l'urgenza di affermare che le istituzioni stesse devono confrontarsi anche con la storia di Giuseppe Pinelli, una storia che non è solo nostra e che molti, senza fare i conti con le tante persone che lo avevano conosciuto e ne avevano apprezzato le doti umane, intellettuali e politiche, avrebbero voluto che subito si dimenticasse. Invece tanti lo hanno impedito, mettendosi al nostro fianco, al fianco della famiglia, per fare in modo che quella storia non solo non fosse dimenticata ma fosse anche tramandata. Tanti non hanno mai dubitato e tanti si sono avvicinati successivamente. Ci confrontiamo anche con le istituzioni, portando avanti una richiesta di verità. Qualche piccola cosa ha consentito di aprire qualche piccola breccia e per questo noi continuiamo. Ancora solo qualche piccola goccia ma resistente», sottolinea ancora Claudia Pinelli.

La figlia: «Non so cosa sia accaduto ma so chi era mio padre»

«Io non so cosa sia accaduto quella notte, so però che mio padre è stato ucciso da innocente, nel momento in cui, entrando nella questura, era nelle mani dello Stato e, proprio in quella situazione, tutti i diritti sanciti nella Costituzione non gli sono stati garantiti. In quel momento mio padre è stato ucciso. Credere nello Stato dopo quello che abbiamo vissuto è tanto. Posso solo dire che ognuno di noi deve essere artefice del cambiamento che è certamente ancora necessario e al quale noi vogliamo contribuire con la memoria, con la testimonianza, con quella verità che se anche non svela ciò che quella notte accadde, certamente racconta quanto di bello Pino, mio padre, aveva fatto e pensato prima. Allora quello è un modo, il nostro modo di tenerlo in vita», prosegue Claudia Pinelli.

Pinelli e Calabresi, due famiglie colpite

I giorni successivi a quella strage che cambiò il volto del nostro Paese, stravolgendo la vita di tante persone e delle loro famiglie, furono incandescenti. Tante vite furono bruciate. La morte di Pinelli infervorò gli ambienti di sinistra che accusarono subito il commissario Luigi Calabresi di questa morte. Nel 17 maggio 1972, esattamente cinquant'anni fa, il commissario fu assassinato e solo dopo un lungo iter giudiziario, mandanti ed esecutori furono individuati nelle fila di Lotta Continua (Ovidio Bompressi e Leonardo Marino esecutori, Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri mandanti). Anni dopo la morte Pinelli, fu accertato che il commissario non era effettivamente in stanza al momento del fatto.

«Quanto sia legata la morte di Luigi Calabresi a quella di mio padre? Come rispondere a questa domanda senza pensare che la morte non livella ma è la vita a fare la differenza e a determinare ciò che conti davvero. Io so che mio padre è morto da innocente. Sul resto forse dovrebbe rispondere altri, i veri responsabili che non sono, è bene ricordarlo i familiari. Le famiglie non centrano, mia madre e Gemma Capra, la vedova del commissario Calabresi si sono strette la mano. Noi abbiamo conosciuto i figli del commissario. Nessuno di loro ha responsabilità in quello che è avvenuto. Altri dovrebbero dire la verità e avere il coraggio di dire quello che è avvenuto», conclude Claudia, figlia di Giuseppe Pinelli.

Gli anni Settanta

La bomba di Piazza Fontana fu la prima. Ne seguirono altre: la questura di Milano il 17 maggio 1973, alla stazione di Gioia Tauro con il deragliamento del treno del Sole il 22 luglio 1970, a Peteano di Sagrado in provincia di Gorizia il 31 maggio 1972, in Piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio 1974, alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 e gli attentati ferroviari San Benedetto Val di Sambro nella Grande galleria dell’Appennino con l'attentato dinamitardo al treno Rapido 904 il 23 dicembre 1984 e all'Italicus nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974.

Una vicenda giudiziaria, quella della strage di piazza Fontana, intricata e complessa snodatasi tra Milano, Roma, Catanzaro e Bari con diversi filoni processuali protrattisi fino al 2005 e conclusisi con nessun colpevole consegnato alla giustizia. Tra prescrizioni, ergastoli commutati in assoluzioni e giudicati non più soggetti a processo, la strage è rimasta di fatto impunita. Una ferita aperta nella vita dei familiari e nella nostra democrazia.

Fu anarchica la prima pista battuta dalla questura di Milano, guidata da Marcello Guida, che in conferenza stampa subito dopo la morte di Pinelli si era affrettato a dichiarare che si era trattato di un suicidio, salvo essere smentito da una sentenza alcuni anni dopo. Marcello Guida, questore di Milano e durante il regime vice commissario del Corpo di pubblica sicurezza, vice direttore della colonia penale di Ponza e poi di Ventotene, che beneficiando dell'amnistia Togliatti restò nella Polizia facendo carriera. Di grande impatto fu il gesto di Sandro Pertini, partigiano recluso al confino di Ventotene da lui diretto, che giunto a Milano dopo la morte di Pinelli in qualità di presidente della Camera dei Deputati non volle stringergli la mano.

La strage di Piazza Fontana e gli anarchici della Baracca

I fermi in quei giorni immediatamente successivi furono numerosi ed eseguiti anche in ambienti anarchici di Roma. Sempre il 14 dicembre, per gli attentati dinamitardi in danno all'Altare della Patria e dello stabile della Banca Nazionale del Lavoro di via San Basilio consumatisi sempre il 12 dicembre, con altri militanti dei circoli 22 marzo e Bakunin furono interrogati anche gli anarchici reggini della Baracca Francesco Pesce, Angelo Casile, Gianni Aricò e la giovane tedesca AnneLiese Borth, in quel periodo a Roma. Giovani animati da intensi ideali di libertà che in quel tempo pagarono un altissimo prezzo per la loro fede anarchica. Angelo Casile, Gianni Aricò e AnneLiese Borth, in particolare, con Franco Scordo e Luigi Lo Celso, persero la vita in circostanze che ancora oggi non risultano del tutto chiare, mentre erano in viaggio verso Roma, la notte del 26 settembre 1970. Anni di morte e terrore e anni di grandi misteri sempre più insondabili.

La stessa pista portò il 14 dicembre successivo all'arresto di Pietro Valpreda, anarchico, scrittore e ballerino, di origini milanesi trasferitosi a Roma dove frequentava il circolo Bakunin, poi assolto.