«Tanta emozione, è stato il risultato straordinario di un gruppo straordinario». Marco Schioppa è docente di Fisica all’Università della Calabria. È lui a guidare un gruppo di ricercatori dell’Unical nell’adeguamento dell’apparato Atlas al nuovo acceleratore LHC.

Come tanti, due giorni fa, ha atteso che la Nasa trasmettesse, in un live seguito in tutto il mondo, i cinque scatti di una porzione di spazio profondo ottenuti grazie al lavoro del telescopio spaziale James Webb che si trova a più di un milione di chilometri dalla Terra. «È incredibile pensare a quanto sforzo c’è dietro a quelle immagini, quante risorse impiegate, quanta tecnologia, ed è stato tutto ben ripagato perché è andato come doveva andare, non era così scontato».

Tutt’altro. Dopo il lancio il telescopio ha anche subito un danno che rischiava di mandare a monte tutto.

«Non è mai banale andare nello spazio. Forse siamo un po’ deviati dall’immaginario del cinema e dei romanzi in cui si riescono a fare cose mirabolanti e poi arrivare a soluzioni altrettanto avventurose. La quantità di cose che può andare nel verso sbagliato è davvero impressionante».

Eppure il Webb è riuscito a superare gli ostacoli e ci ha inviato quelle immagini che hanno lasciato il mondo senza fiato.

«Per parlarne dobbiamo partire da lontano».

Andiamo.

«Se lei vuole guardare un oggetto lontano deve costruire uno strumento che abbia delle lenti adatte ad avvicinare quell’immagine. Abbiamo bisogno di una certa quantità di luce che illumini questo oggetto, poi questo la riflette verso il nostro cannocchiale, la lente fa il suo e noi lo vediamo come se ci fosse davanti. Parlando di distanze cosmiche ragguardevoli, dobbiamo considerare che la luce che ci arriva da oggetti luminosi è debolissima».

Chiaro.

«Se una lampadina la metti sulla scrivania vedremo la sua luce abbastanza forte, se la spostiamo su una collina forse neanche riusciremo a catturarne il bagliore».

In questo caso parliamo di una distanza di 13 miliardi di anni luce.

«Ed ecco perché ci serve uno strumento in grado di captare a dovere il debole segnale che ci arriva».

Che differenza c’è tra questo telescopio e il suo predecessore, l’Hubble?

«Intanto questo è più grande, ha un’apertura di 6 metri e mezzo contro i 2 metri dell’Hubble, quindi cattura più luce. Ma la differenza più importante è che Hubble è sensibile alla luce visibile, mentre il Webb lavora nell’infrarosso».

Professore ci spiega cosa vuol dire esattamente “infrarosso”?

«Ha presente le squadre speciali che intervengono di notte magari per catturare qualche latitante o impegnate in operazioni militari?»

Perfettamente.

«Spesso indossano dei visori ad infrarosso che permettono di vedere corpi che emettono calore, ma è sempre di luce che parliamo».

Come se avessi otto anni, professore.

«Le onde sono fatte di creste, come quelle del mare, che hanno diverse frequenze, cioè una differente distanza tra una cresta e l’altra. Nel caso degli infrarossi abbiamo delle onde lunghe con creste molto distanziate tra loro. Questo telescopio non solo riesce a catturare più luce ma a anche a leggere e vedere queste onde di grande lunghezza».

Ed è per questo che abbiamo visto foto con una risoluzione così alta?

«Lo spazio è meno “poetico”, diciamo pure così, di come è in realtà. Contiene tanta materia in sospensione come polvere, piccole molecole, oggetti in movimento. Per la luce visibile è più difficile attraversare la polvere cosmica mentre per l’infrarosso è più facile, lo spazio diventa più trasparente. E poi c’è la ciliegina sulla torta…».

Quale?

«L’Universo, come sappiamo, è in espansione e questo fa sì che anche la luce visibile diventi infrarosso. Si chiama effetto doppler».

Simile all’effetto acustico delle ambulanze?

«Il concetto è quello. L’esempio classico è quello della sirena della polizia che quando ce l’hai alle spalle ha un suono, quando ci sorpassa e va avanti, ne ha un altro. Il suono cambia quando cambia la frequenza. Quando gli oggetti si allontanano la frequenza diminuisce. Per effetto dell’allontanamento, la luce, che parte con una certa frequenza, a noi arriva con una più bassa, il che significa che sta anche cambiando colore».

Colore?

«Sì, i colori sono legati a una scala di frequenza: il blu, ad esempio ha frequenza alta, il rosso bassa, il giallo ancora più bassa. E l’infrarosso? Ancora più basso del giallo».

Professore, il Webb ha fotografato una galassia massiva come era 13 miliardi di anni fa, ma potrebbe rimandare immagini ancora più antiche, magari istantanee dal Big Bang?

«Credo sia impossibile. Possiamo speculare?»

Speculiamo.

«Questo nuovo telescopio molto probabilmente ci farà cambiare opinione su tanti argomenti perché riuscirà a vedere cose che non abbiamo mai visto e parlo anche di oggetti vicini. Questo il Webb lo potrà fare, così come vedere buchi neri che non emettono molta energia, stelle morenti, pianeti simili alla Terra, cose che abbiamo solo immaginato».

È un momento di fermento, il progresso scientifico ha subito un’accelerata: dieci anni fa il bosone di Higgs, poi la percezione delle onde gravitazionali, due anni fa l’immagine del primo buco nero, adesso questo. Cosa ci aspetta, cosa riusciremo a vedere noi di questa generazione?

«La materia oscura fa parte di quegli aspetti che il Webb potrebbe aiutare a svelare. Noi stiamo cercando l’evidenza diretta di questa materia, forse nelle collisioni degli acceleratori riusciremo a produrla, e dico forse perché se non sappiamo cos’è sarà difficile vederla. Diciamo che sulle spalle di questo telescopio gravano tante responsabilità scientifiche».

È un po’ Atlante, ha tanto peso addosso.

«E non solo quello della Terra».