«Letteralmente il mio marito è di un temperamento incorreggibile». Rosaria Cavallo, stretta nei suoi 17 anni, è seduta davanti a un uomo in divisa. Accompagnata dal padre e da uno zio, all'alba del 17 novembre 1884, ha lasciato la sua casa di Castiglione Cosentino e ha raggiunto la caserma dei carabinieri reali. «Dopo otto giorni dal matrimonio, iniziò a percuotermi per motivi di poco conto. Per non alimentare la sua violenza, rinunciai persino ad andare a messa la domenica, ma lui continuava a percuotermi, lasciandomi spesso semiviva a terra con calci e colpi di bastone e legandomi al letto per tutta la notte». Ignorava Rosaria che il suo racconto, un secolo e diversi lustri dopo, sarebbe riemerso dalla polvere dell'Archivio di Stato di Cosenza che - in occasione della Giornata internazionale contro la violenza di genere - ha allestito la mostra documentale intitolata "Arrendersi mai". Cinque storie di violenze sessuali e domestiche ricostruite attraverso i fascicoli dei processi penali celebrati tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento. Le carte restituiscono il coraggio di giovani donne che denunciano brutalità e sopraffazione. Le condanne inflitte dai giudici dell'epoca sono spesso effimere. In alcuni casi, le vittime vengono costrette a ritrattare ma, dietro l'ufficialità di una versione alternativa dei fatti, si nasconde la minaccia di nuove violenze.

Rosaria Cavallo: «Mentre io avevo il lume in mano, mi prese per il collo e mi costrinse a inginocchiarmi»

Il verbale di denuncia è adagiato dentro a una teca di vetro. Un caldo alito di luce si posa sulla scrittura morbida e chiara di uno sconosciuto ufficiale giudiziario. Rosaria è di fronte a lui: «Diceva sempre a mio padre e a quelli di Castiglione che, se io mi separavo, lui mi avrebbe ammazzato. Nella sera del sei corrente mese, ritornò da San Pietro in Guarano a tarda notte e io gli chiesi soltanto perché era rincasato così tardi. Egli, senza rispondermi, mentre io avevo il lume in mano, mi prese per il collo. Mi buttò per terra e poi mi costrinse a inginocchiarmi, ordinandomi di rimanere in quella posizione altrimenti mi avrebbe uccisa. Mi impedì di bere almeno un poco d'acqua e, quando mi rialzai, ricominciò a percuotermi per tutta la notte. Tanto che era stanco di picchiarmi, il mattino successivo non andò neanche a lavorare. Quando uscì, siccome la porta era rimasta aperta, vennero a trovarmi alcune vicine e il parroco. Quando mio marito tornò, mi picchiò di nuovo perché avevo fatto entrare quelle persone in casa. Io non finirei mai di raccontare tutte le sevizie che lui ha commesso contro di me. Sarò più precisa quando, davanti al presidente del Tribunale, sosterrò la mia richiesta di separazione personale». Michele Alitto, di professione armiere, imputato di lesioni continuate gravi e frequenti in persona della moglie Rosaria Cavallo, viene condannato a tre mesi di reclusione.

Teresa Ortale: «Sin dai primi giorni di matrimonio mi sottopose ai più inumani trattamenti»

«Ho paura che mi possa ammazzare». Teresa Ortale, dopo essere fuggita di casa, trova rifugio dalla madre che la convince a confidarsi con il sindaco di Malito. «Sin dai primi giorni di matrimonio, ho subito le più crudeli sevizie e i più inumani trattamenti». Il 24 giugno 1891 Teresa denuncia il marito per maltrattamenti presso la Legione dei carabinieri reali di Grimaldi. In seguito all'esposto, Domenico Scaroni, vice brigadiere a cavallo e comandante della suddetta stazione e il carabiniere a piedi della stessa stazione Olivo Rocchetta, mettono a verbale quanto segue: «Vestiti della nostra militare divisa, dichiariamo che alle undici di ieri mattina, ci siamo recati alla locale Pretura per sapere delle novità e il signor Pretore ci informò come la nominata Teresa Ortale, contadina del comune di Malito, aveva presentato querela contro il proprio marito Giovanni De Luca di 19 anni perché, sin dai primi giorni del loro matrimonio, la sottopose alle più crudeli sevizie e ai più inumani trattamenti e dovette fuggire dalla casa, rifugiandosi presso la propria madre. Noi sottoscritti militari ci siamo recati in sopralluogo per le volute verifiche di quanto aveva denunciato la querelante e, grazie ad alcuni testimoni, abbiamo potuto assodare i fatti». Dai documenti custoditi presso l'Archivio di Stato di Cosenza scopriamo che, dopo tre giorni, Teresa Ortale decide di ritirare la querela e si impegna a pagare le spese dovute per il procedimento.

Rosa Garofalo: «Non sottoscrivo la querela essendo analfabeta»

Carmine Capizzano ha 28 anni, fa lo spazzino ed è sposato con Rosa Garofalo. Il 12 agosto 1906, la donna va dai carabinieri reali di San Fili e lo denuncia per minacce di morte e maltrattamenti continui: «Mio marito mi maltratta abitualmente, percuotendomi per un nonnulla, per cui sono costretta spesso a richiedere contro di lui l'intervento dei carabinieri. Una sera, mise sotto il suo cuscino prima di andare a letto, un coltello a serramanico, minacciando di usarlo contro di me. Allora, avendo trovato la porta chiusa, aprii una finestra alta circa tre metri e mi precipitai fuori. Sebbene stordita per la caduta, fuggii e mi recai a casa di mia madre. Essendo incinta di tre mesi e avvertendo forti dolori, richiesi l'intervento del medico, il quale mi dichiarò guaribile in 15 giorni con probabilità di aborto. Non sottoscrivo la querela essendo analfabeta». Il 18 agosto Rosa ritratta la propria versione: estinta per remissione l'azione penale contro Carmine Capizzano, il giudice istruttore dichiara il non luogo a procedere.

Rosaria Fiore: «Voleva sverginarmi e io mi difesi con la scure che mi serviva per tagliare la legna»

Rosaria ha 12 anni e vive a Santa Maria le Grotte, frazione del comune di San Martino di Finita. Serafino Tricarico, dieci anni più grande, dopo la denuncia della giovane, è accusato di tentata congiunzione carnale. «Verso le 9 del giorno 12 marzo 1909, in un magazzino affittato dai miei genitori, si presentò l'ex seminarista Tricarico Alfonso dicendomi che voleva sverginarmi. A tale svergognato proposito, io lo respinsi con sdegno. Allora il Tricarico si avventò su di me come un forsennato e con violenza cercò di gettarmi a terra, ma io riuscii a farlo scappare. Qualche giorno dopo, mentre mi trovavo in campagna, il Tricarico mi fece un'altra proposta oscena e cercò di alzarmi le vesti. Io lo respinsi con la scure che avevo in mano e che mi serviva a tagliare la legna. Lui mi puntò il fucile contro e mi intimò di non raccontare nulla ai miei genitori». Le accuse di Rosaria non trovano riscontro e il giudice dichiara il non luogo a procedere contro Serafino Tricarico.

Filomena Aronne accusa il marito in punto di morte: «Non è stato un incidente, è stato lui a colpirmi»

A Orsomarso si consuma la tragedia di Filomena Aronne, sposata con Francesco Arieta, calzolaio di 23 anni. Teresina Aronne, cugina della vittima, assiste all'ennesima e ultima scena di violenza attraverso il vetro di una finestra. Corre l'anno 1910 e questa è la testimonianza resa ai carabinieri dalla donna: «Quando mi sono accorta che perdeva sangue, mi sono precipitata a chiamare il medico. Insieme siamo andati a casa di mia cugina che, nel frattempo, si era messa a letto». Filomena, in un primo momento, difende il marito e sostiene di essersi ferita accidentalmente. Prima di morire, però, confessa a un'amica che a colpirla con uno stiletto alla nuca era stato il marito. Francesco Arieta, al termine di un lungo processo, viene condannato per omicidio. I giudici lo descrivono come un uomo indebitato, che avanzava continue richieste di denaro alla moglie, di professione sarta. Anche prima di quel colpo mortale, aveva chiesto soldi a Filomena con la scusa di dover acquistare delle suole per riparare un paio di scarpe.