*di Alessandro Russo

CAPITOLO UNO | Il sé rispecchiato della Calabria

Il claim della campagna elettorale vittoriosa del neopresidente della Regione, Roberto Occhiuto, “la Calabria che l’Italia non si aspetta” è la chiave per ragionare sui destini di questa terra e di altri pezzi del Mezzogiorno che faticano a emergere e a uscire dal cliché di vittime designate dell’indifferenza dello Stato, dell’Europa, delle grandi imprese e chi più ne ha più ne metta. In questo esame che non finisce mai, in cui tutti si aspettano o non si aspettano qualcosa, la Calabria fatica a trovare una propria forza, a ritrovare una propria identità. Prendendo in prestito la metafora del sé rispecchiato dal sociologo statunitense Charles Horton Cooley, la Calabria sembra definirsi sempre a partire dai cliché altrui. O, meglio, da ciò che si immagina che gli altri pensino.

Se un programma televisivo parla di mafia, il calabrese con la bandiera dirà che la Calabria è sempre più mafiosa o, al limite, se il format impone un tour sul popolo omertoso, l’intervistato con la coppola affermerà che la Calabria non è affatto mafiosa. Se si parla di corruzione, la Calabria sarà sempre la più corrotta. Se il programma parla di bellezza, il calabrese ricorderà con orgoglio che la Calabria è sempre la più bella; se il format si occupa di tesori culturali, la Calabria, ovviamente, ne ha sempre di più. Il modo provinciale in cui i media locali trasformano in notizia il fatto che un media nazionale si occupi di Calabria (da Giletti alle Iene, da Porta a Porta a Presa diretta) la dice lunga sulla scarsa voglia di narrarsi per ciò che si è: il copione e la regia sono sempre quelle degli altri. 

CAPITOLO DUE | La metafora di un Mezzogiorno zavorrato

Le scelte politiche, le narrazioni letterarie e quelle giornalistiche sembrano costantemente influenzate da un immaginario copione scritto fuori dai confini. Quando accade qualcosa di brutto, il cliché impone che ci sia sempre un calabrese che urli “lo Stato ci ha abbandonato”: non accadrà mai che qualcuno intervisti il calabrese che dice “lo Stato siamo noi, rimbocchiamoci le maniche”.
Il problema del PNRR non è se siamo in grado, come meridionali e calabresi, di utilizzare quelle ingenti risorse per migliorare la nostra vita: è capire se gli altri ne hanno avute di più, se i nostri vicini hanno avuto qualche vantaggio. Commentatori e politici si azzuffano sui numeri – importanti, certo – ma se ne sbattono della sostanza, cioè in che modo si vuole creare sviluppo e occupazione. Un tema che abbiamo approfondito a fine estate Scilla, alla terza edizione di SUDeFUTURI, e che più di altri divide, soprattutto perché i pregiudizi su questi territori si alimentano sì di fatti obiettivi, ma anche delle azioni di chi – a parole – dice di combatterli.
In questo senso la Calabria diventa la metafora di larghe fette del Mezzogiorno zavorrate da sciatteria e burocrazia, da false promesse e falsi profeti, da un familismo amorale codificato in larghi pezzi della società cui politica, sindacati, imprese – insomma la teorica classe dirigente – aggiungono pesi su pesi invece che toglierli.

CAPITOLO TRE | Tutti quelli che si aspettavano o no qualcosa dalla Calabria

Torniamo alla Calabria che l’Italia non si aspetta. Intanto questa Calabria non se l’aspettava chi ha perso.
Non se l’aspettava Luigi De Magistris che, anche sull’onda emozionale della condanna monstre di Mimmo Lucano, magari si illudeva che i calabresi gli attribuissero una valanga di voti. Non se l’aspettavano il Pd e i 5stelle che certo, dopo i bagni di folla di Conte, un pensierino a un mini-ribaltone lo avevano fatto. Non si aspettava questa Calabria l’ex presidente Mario Oliverio che, pompato da commentatori dinosauri e da una sovrastima egoiatrica della propria rete di consensi, ha ottenuto una stroncatura imbarazzante. Non si aspettava questa Calabria neanche chi ha vinto, visto che in questa regione Forza Italia sembra essere tornata ai fasti di decenni fa, mentre nel resto del paese è ridotta ai minimi termini. E, infine, non si aspettava questa Calabria il gotha dei commentatori politici che ovviamente pronosticava la vittoria del centrodestra, ma non in proporzioni bibliche e in assoluta controtendenza con il resto dell’Italia.

Già, ma tolti i partiti e i tornaconti elettorali, qual è la Calabria che l’Italia non si aspetterebbe?
La suggestione è quasi scontata e offre uno spaccato di quanto cliché e stereotipi siano ormai un assunto per tutti i politici, regionali e nazionali: la Calabria che l’Italia non si aspetta è una Calabria produttiva, volitiva, ingegnosa, desiderosa di futuro, contrapposta alla Calabria che invece l’Italia si aspetta, cioè una terra di mafiosi e corrotti, indolente e parassita, così come fotografata nei talk show urlanti.

CAPITOLO QUATTRO | E se fossero i calabresi ad aspettarsi qualcosa?

Il punto è un altro: con un ribaltamento kennediano qualcuno avrebbe dovuto chiedersi cosa i calabresi si aspettano intanto dai loro politici, invece di chiedersi cosa l’Italia si aspetta dalla Calabria.

Si aspettano di più, certamente, visto che hanno disertato le urne in massa. Non sono andati a votare sei calabresi su dieci: un dato che ormai si ripete e che la dice lunga sulla sfiducia nella classe dirigente, sulla percezione diffusa sull’inutilità del voto, sulla convinzione radicata che il cambiamento sia impossibile. Uno dei calabresi più grandi, Corrado Alvaro, scriveva che la disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile. È forse questo il dubbio che si è impadronito di quel 55,64 per cento di calabresi. Un dubbio che a volte si trasforma in rabbia, altre in voglia di fuggire, molto spesso si rifugia nell’ignavia.

EPILOGO | Cercasi disperatamente qualcuno che dica “è anche colpa mia”

Non è importante ciò che l’Italia si aspetta dalla Calabria, bensì ciò che i calabresi si aspettano dai loro rappresentanti istituzionali e dai gruppi dirigenti, e quanto questi siano disposti a dare in termini di impegno e progettualità. Ma dipende anche da ciò che i cittadini sono disposti a dare – negli uffici in cui sono impiegati o nelle attività in cui sono impegnati – in termini di onestà, rigore ed efficienza, visto che un gruppo dirigente non è mai peggiore della società che lo esprime.

L’impressione, leggendo i commenti sui social, sul web e sui giornali, ascoltando le interviste e gli approfondimenti televisivi, è che la colpa sia sempre di qualcun altro: degli elettori che non votano quelli giusti, dello Stato che abbandona il territorio, del territorio che rifiuta lo Stato, dei soldi che non arrivano, dei soldi che se arrivano qualcuno se li mangia, dei soldi che sono sempre più al Nord che al Sud, di Cavour e Garibaldi, degli americani, dei giornalisti, dei magistrati, di chi più ne ha più ne metta.

Se qualcuno cominciasse a dire “è anche colpa mia” forse avremmo una buona base su cui ripartire.

*giornalista e direttore di SUDeFUTURI MG