Restano senza risposte le 40 richieste di chiarimento sugli effetti della mega opera. Campionamenti del terreno fermi al 16% nelle aree per il deposito dei materiali di scavo. L'agenzia regionale: «I nuovi documenti non fanno riferimento alle nostre osservazioni»
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Rischi legati alla conservazione dell’ambiente marino e alla sua fragilissima biodiversità, e dubbi sulla “riqualificazione” delle cave dismesse che si vorrebbero riempire con gli scarti di lavorazione del ponte. Erano queste le integrazioni che la direzione scientifica dell’Arpacal aveva richiesto alla Stretto di Messina rispetto al progetto di collegamento stabile tra Calabria e Sicilia. Integrazioni a cui la società guidata da Ciucci non ha nemmeno risposto, almeno in modo diretto, tanto che i funzionari dell’agenzia regionale sono dovuti andarsi a spulciare l’intero gigantesco faldone che la Sdm ha depositato al Mase a settembre, alla ricerca delle risposte invocate in conferenza di servizi. Risposte che nel caso delle terre di scavo sono state trovate, ma solo parzialmente (e solo perché coincidenti con analoghi quesiti avanzati dalla stessa commissione Via). Nel caso delle osservazioni del centro strategia marina invece è andata anche peggio e di quelle risposte, i funzionari di Arpacal, non sono riusciti a trovare traccia.
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Il centro strategia marina
Sono una quarantina i quesiti che il dipartimento a tutela del mare aveva avanzato alla Stretto di Messina. Quesiti rimasti finora insoluti e che hanno portato l’agenzia a ripresentarli tali e quali in attesa di maggior fortuna: «Il proponente non ha fornito – si legge nel documento depositato al Mase da Arpacal – un documento unitario contenente le risposte alle integrazioni che pertanto, considerata l’elevata mole degli elaborati presentati, oltre che i tempi dettati dalla procedura in corso, si intendono integralmente richiamate». Tanti gli approfondimenti richiesti dall’agenzia regionale rispetto agli effetti che il progetto del ponte potrebbe avere sull’ambiente marino. Approfondimenti che vanno dalla morfodinamica costiera «per comprendere gli effetti erosivi sulla fascia costiera e la possibilità di perdita di habitat marini costieri per rimozione o seppellimento» allo studio «dal punto di vista fisico, chimico e biologico dei sedimenti» che verranno rimossi e depositati nelle aree costiere «ai fini della tutela delle acque». E poi le integrazioni sulla valutazione dell’impatto rispetto alle “foreste di kelp” «abbondanti nell’area di interesse ma mai in precedenza analizzati» e alle prateria di Posidonia. Quaranta punti sintetizzati in una decina di pagine e a cui finora, nonostante la richiesta specifica di «un documento unitario contenente le risposte ad ogni singola richiesta di integrazione», la società che vuole costruire il ponte non ha ancora risposto.
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La gestione di terre e rocce da scavo
È andata invece (un po’) meglio al dipartimento Arpacal che si occupa degli studi sul movimento terra, ma solo perché parte delle sue richieste, si accavallavano a quelle della Commissione Via: «I nuovi documenti – scrive la direzione scientifica del centro regionale coordinamento controllo ambientale e rischi, riferendosi alle integrazioni depositate dalla Stretto di Messina – contengono il recepimento delle integrazioni richieste dal Mase, ma non fanno alcun esplicito riferimento alle nostre osservazioni». Nonostante la mancata risposta diretta però, i funzionari Arpacal sono riusciti a trovare nei faldoni pubblicati online, alcune delle risposte che cercavano. Risposte che però non convincono gli uffici regionali. Tra i dubbi sollevati dall’agenzia regionale, salta agli occhi la percentuale lillipuziana (appena il 16%) dei campionamenti previsti per «caratterizzare i materiali da scavo»: indagine che si sarebbe limitata unicamente agli strati superficiali del terreno e che, a giustificazione della mancata copertura totale dell’area da analizzare «adduceva motivazioni generiche e non esaustive (proprietario non presente)». Preoccupa poi che le indagini condotte fino a questo momento risalgano al 2010 e che «non possono essere considerate significative» ai fini di una legge arrivata solo sette anni dopo, e «si riferiscono a condizioni ambientali sia locali che di vasta area, potenzialmente diverse dalle attuali, visto il lungo periodo di tempo intercorso dalla loro realizzazione».
Paradossale poi il caso delle cave (a Varapodio e a Terranova oltre che nel chiacchieratissimo “buco” di Limbadi), dei depositi intermedi e delle aree di lavorazione delle terre su cui la Sdm non ha fornito «alcuna informazione sull’effettiva attuale sussistenza delle autorizzazioni necessarie». Discorso analogo per i materiali da scavo da trattare come rifiuti su cui «non si fa alcun riferimento alla necessarie autorizzazioni per la realizzazione e l’esercizio delle discariche previste per lo smaltimento di parte dei rifiuti inerti».