Poche le iniziative programmate per adattarsi alle variazioni del clima, nonostante le ricadute che queste possono su salute e qualità di vita. L'analisi del geologo Mario Pileggi
Tutti gli articoli di Ambiente
PHOTO
di Mario Pileggi, geologo.
Con l’inizio del primo anno del terzo decennio del terzo millennio le classi dirigenti del Bel Paese continuano a manifestare l’incapacità di decidere e programmare i necessari interventi di adattamento ai cambiamenti climatici che incideranno molto sulla salute e qualità della vita delle popolazioni.
A differenza di quanto viene deciso e programmato nei maggiori Paesi di tutti i continenti, tra le priorità dell’agenda di governo non c’è la rilevante questione climatica con le gravi implicazioni ambientali, socio-economiche e politiche connesse ai cambiamenti stessi. Significativa la carenza di iniziative adeguate per l’evento storico del G20 presieduto dall’Italia e per la 26a Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (COP26).
Sulle necessarie iniziative e decisioni per gli interventi di adattamento ai cambiamenti climatici e sulla loro rilevanza sulla salute e qualità della vita delle popolazioni, restano spenti anche i riflettori dei media e talk show nazionali sempre accesi su inutili e dannose dispute su vaccinazioni, previsioni e responsabilità dell’evolversi della pandemia.
Riflettori spenti anche su quanto emerge dal recente Rapporto delle Nazioni Unite "The Human Cost of Disasters 2000-2019", redatto dal “Centre for Research on the Epidemiology of Disasters” (CRED) e da ”United Nations Office for Disaster Risk Reduction” (UNDRR), nel quale sono riportati i dati sui numeri dei morti e sull’entità dei danni provocati da eventi disastrosi legati al clima.
In particolare dal Rapporto emerge che dal 2000 al 2019 ci sono stati 7.348 eventi disastrosi che hanno causato la perdita di 1,23 milioni di vite umane, colpito una popolazione di 4,2 miliardi di persone e causato danni economici per circa 2,97 trilioni di dollari. Molti dei disastri sono dovuti proprio ad eventi legati al clima che hanno colpito 3,9 miliardi di persone, circa il 95% e provocato danni economici per circa 2,2 trilioni di dollari, circa il 74% delle perdite economiche complessive. Dal Rapporto emerge anche un forte aumento del numero dei disastri legati al clima che nell’ultimo ventennio sono arrivati a 6.681 mentre nel precedente, dal 1980 al 1999 ne risultano
registrati 3.656. Questi dati emergono dal database degli eventi di emergenza (EM-DAT) gestito dal Center for Research on the Epidemiology of Disasters (CRED) che registra i disastri che hanno provocato la morte di dieci o più persone; colpito 100 o più persone; provocato uno stato di emergenza dichiarato; o una richiesta di assistenza internazionale.
L’incapacità delle classi dirigenti di considerare la rilevanza della questione climatico-ambientale è confermata dal fatto che il Bel Paese retrocede al 27esimo posto nella classifica dei Paesi per la lotta al contrasto dei cambiamenti climatici. E dalla inadeguatezza del Piano Nazionale Energia e Clima (PNIEC).
Non si considera la specificità del BelPaese che emerge dai dati e grafici forniti alla World Meteorological Organization (WMO) e contenuti nell’Annuario dei dati ambientali ISPRA 2020 come l’andamento climatico annuale, sia per quanto riguarda i valori medi di temperatura e precipitazioni che gli eventi meteorologici estremi come onde di calore, precipitazioni estreme, alluvioni, siccità, tempeste di vento, nevicate eccezionali.
In pratica si continua ad ignorare che nei prossimi decenni i Paesi dell'Europa meridionale dovranno fronteggiare gli impatti più significativi dei cambiamenti climatici e saranno fra le aree più vulnerabili del pianeta. Dai vari scenari delineati da numerosi studi e approfondite analisi emerge l’aumento di frequenza e intensità degli impatti sull’Europa meridionale.
Per i Paesi del Mediterraneo e, in particolare, l’Italia emergono problemi come l’innalzamento del livello del mare, le siccità prolungate, piogge a carattere esplosivo con alluvioni e veri cicloni extra-tropicali, ondate di calore, avanzamento del cuneo salino con perdita di falde di acqua dolce lungo le coste, erosione costiera, aree in desertificazione. Si tratta di impatti rilevanti, in particolare nelle regioni meridionali, su risorse naturali, ecosistemi, salute e condizioni socio-economiche.
D’altra parte, gli studi e la Relazione della Commissione al Parlamento Europeo e al Consiglio sull'attuazione della strategia dell'UE di adattamento ai cambiamenti climatici evidenziano che “se gli scenari resteranno immutati, i danni subiti ogni anno da infrastrutture critiche in Europa potrebbero decuplicarsi entro la fine del secolo, a causa dei soli cambiamenti climatici (dagli attuali 3,4 miliardi di EUR a 34 miliardi di EUR). Le maggiori perdite riguarderebbero i settori dell'industria, dei trasporti e dell'energia”. Emerge che per tre cittadini europei su quattro i cambiamenti climatici rappresentano un problema molto grave. I cambiamenti osservati nel clima stanno già avendo ripercussioni di ampia portata su ecosistemi, settori economici, salute umana e benessere in Europa. Nel complesso, le perdite economiche registrate in Europa nel periodo 1980-2016 provocate da fenomeni meteorologici e altri eventi estremi legati al clima hanno superato i 436 miliardi di EUR. La distribuzioni delle perdite nei vari Stati membri dell'UE mostra l’Italia in cima alla classica dopo la Germania.
La rilevanza della questione ambientale appare ancor più evidente se si considerano gli effetti dei cambiamenti climatici nel corso della storia della Terra e degli Uomini. Va ricordato che dall’origine della Terra e dalla comparsa dell’Uomo non c’è mai stato un <> in nessun luogo del Pianeta. Sono invece sempre più numerose e dettagliate le conferme scientifiche sulle variazioni e oscillazioni climatiche con l’alternarsi di periodi più caldi a periodi più freddi.
Va ricordato che nel corso della Storia della Terra si sono alternate ere “Glaciali” della durata di milioni di anni come l’attuale Neozoica caratterizzate dalla presenza delle calotte glaciali e dei ghiacciai sulle vette delle catene montuose. E altre ere geologiche con temperature medie globali molto più alte rispetto all’attuale senza la presenza di calotte glaciali e ghiacciai sulla superficie terrestre, dette epoche “Interglaciali”.
Nel corso dell’attuale era glaciale denominata Neozoica si sono alternati periodi più freddi della durata di circa 100 mila anni caratterizzati dalla crescita ed avanzamento dei ghiacciai e periodi meno freddi di durata variabile con riduzione e arretramento dei ghiacciai. La durata in milioni di anni delle epoche più calde, in colore rosso, e di quelle più fredde in azzurro è riportata nella parte superiore dello schema Ere Glaciali-Ere Interglaciali mentre nella parte inferiore dello stesso è indicata la durata e l’alternarsi dei periodi più freddi con la crescita ed avanzamento dei ghiacciai evidenziati in colore blu scuro e quella dei periodi meno freddi come l’attuale in azzurro.
Le continue oscillazioni climatiche sulla Terra sono state ben evidenziate nel primo rapporto IPPC , istituito dalla World Meteorological Organization (WMO) e dal Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente (UNEP), per effettuare valutazioni periodiche della scienza, degli impatti e degli aspetti socio-economici del cambiamento climatico e delle opzioni di adattamento e mitigazione per affrontarlo.
Nel capitolo dedicato al “Observed Climate Variations and Change” del Rapporto IPPC del 1990 redatto da centinaia di scienziati di tutti i continenti sono riportati molti dati e grafici come quelli che mostrano le oscillazioni climatiche con gli aumenti e diminuzioni delle temperature, rispetto a quella media terrestre del periodo 1961-1990, nell’ultimo milione di anni, negli ultimi 12 mila anni e negli ultimi mille anni.
Inoltre la storia recente documenta cambiamenti climatici naturali a scala pluridecennale e secolare senza i gas climalteranti di origine antropica.
Approfonditi studi e ricerche storico-geografiche e geoarcheologiche effettuate nell’area mediterranea e in particolare nelle regioni meridionali del BelPaese evidenziano che negli ultimi 3.000 anni le condizioni climatico-ambientali sono variate alternando periodi più freddo-umidi e periodi più caldo-aridi caratterizzati da notevoli implicazioni sugli assetti idrogemorfologici e sulla vita di tutti gli esseri viventi. In particolare nelle regioni meridionali sono stati individuati periodi caldo-aridi come quello Medioevale che va dall’anno 1000 al 1300 e quello dell’età romana compreso tra il 100 e il 300 d.C. circa. Periodi caratterizzati da un clima più freddo-umido sono documentati:
- tra il 520 a.C. e il 350 a.C. denominato “Piccola Età Glaciale Arcaica”;
- tra il 500 d.C. e il 750 d.C. denominato “Piccola Età Glaciale Alto medievale”;.
- tra il 1500 d.C. e il 1850 d.C. denominato della “Piccola Età Glaciale”.
Durante questo ultimo periodo di raffreddamento globale noto come "The Little Ice Age” sono documentati sia una ridotta attività solare, il "Maunder Minimum", sia numerose eruzioni vulcaniche che, con la rilevantissima diffusione di cenere e polveri, hanno accentuato il raffreddamento. Particolarmente rilevanti le eruzioni del 1800 del Krakatoa e del 1815 del Tambora. L’enorme quantità di materiale eruttato tra il 10 e l’11 aprile del 1815 dal Tambora, stimato in più di 40 chilometri cubi, provocò il noto “Freddo del Tambora” e un abbassamento della temperatura mondiale di circa 3-4 °C. In Europa e Nord-America l’anno successivo all’eruzione è ricordato come “l’anno senza estate”. E sono ampiamente documentati anche i rilevantissimi e disastrosi impatti socio-economici, sull’ambiente e ogni forma di vita.
Sulle variazioni climatiche più recenti è da ricordare che negli anni sessanta del secolo scorso i climatologi, in considerazione dell’accertata crescita dei ghiacciai in tutto il mondo e dei risultati di altre ricerche, erano ossessionati dall’idea che una nuova glaciazione fosse imminente. Della fine dell’attuale periodo Interglaciale ed inizio di una nuova glaciazione discussero glaciologi e climatologi nel 1972 nella Brown University. Molti degli esperti presenti, anche in considerazione del fatto che il raffreddamento riguardava le Regioni Polari, concordarono nell’affermare che i periodi Interglaciali sono di breve durata e finiscono bruscamente. In particolare, basandosi sui cicli di
Milankovitch, affermarono che: “senza alcun dubbio la fine naturale del nostro Periodo Interglaciale è alle porte”.
Come spesso accaduto, anche allora c’era chi sosteneva che il raffreddamento globale era causato principalmente dall’uomo perché gli effetti dell’industrializzazione, della rilevante crescita della popolazione mondiale e della rapida crescita urbana nelle metropoli avevano sul clima una rilevanza pari a quella dei processi naturali. Si consideravano determinanti le notevolissime quantità di carbone e petrolio bruciate nell’aria e dei gas di scarico che venivano rilasciati nell’ambiente senza essere filtrati in alcun modo. In pratica, a causa della maggiore torbidità dell’aria legata all’aumento di smog, nebbia e nubi ci sarebbe stata una riduzione dell’insolazione e, quindi, il raffreddamento.
Si riteneva che il raffreddamento fosse causato da un “effetto filtro” che avrebbe ridotto l’esposizione della superficie terrestre ai raggi solari. È da considerare che, sempre negli anni ’60, per regolare il clima mondiale, negli Usa si ideò un Progetto di una diga per sbarrare lo stretto di Bering tra Alaska e Siberia. Favorevole a questo progetto si dichiarò anche John F. Kennedy durante la campagna elettorale del 1960. Il progetto della diga di Bering fu approfondito durante la presidenza di Richard M. Nixon e costituì il tema centrale del vertice USA-URSS di Vladivostok del 1974 tra i Presidenti Gerald Ford e Leonid Brežnev. Sulla rilevanza data al rischio di un raffreddamento globale va ricordato che nel 1978, per fronteggiare il temuto raffreddamento globale (Global Cooling), il Congresso degli Stati Uniti lanciò un programma nazionale sul clima da realizzare tra 1980 e 2000. Per contrastare il temuto raffreddamento globale “esperti” climatologi e militari avevano previsto vari interventi come ad esempio:
- aumentare le emissioni di CO2 in modo da rafforzare l’effetto serra;
- ricoprire le calotte polari di una pellicola nera per diminuire l’effetto albedo;
- costruire una diga in cemento tra Groenlandia e Norvegia;
- riscaldare la Groenlandia con reattori nucleari o, in alternativa, sciogliere il ghiaccio dei poli con bombe all’idrogeno;
- far esplodere delle bombe atomiche per abbattere le montagne sottomarine a Sud-Ovest delle isole Fær Øer per prolungare gli effetti delle correnti marine calde dell’Artico.
- far orbitare intorno alla Terra degli enormi specchi per accrescere effetto del Sole e,o costruire una specie di “anello di Saturno” di potassio.
Questi ultimi esempi di misure progettate poco meno di mezzo secolo fa per fronteggiare il Global Cooling non possono essere ignorati e consigliano l’attenta e costante analisi scientifica dei dati sulle reali cause delle evoluzioni climatiche e dei conseguenti interventi da adottare nell’interesse comune. Tra gli interventi non possono mancare la decarbonizzazione per l’efficienza energetica, confermata nello European Green Deal, e altre misure come quelle emerse nella XII Conferenza Nazionale per l'Efficienza Energetica.
La gravità e il crescente numero dei disastri provocati da eventi meteorologici estremi evidenziati nel Rapporto delle Nazioni Unite e nei vari scenari sopra richiamati impongono alle classi dirigenti e ad ogni cittadino a qualsiasi livello di responsabilità di agire concretamente per invertire la tendenza in atto e ridurre impatti e rischi per la salute umana, gli ecosistemi, la biodiversità e i mezzi di sussistenza.