Solo chi c’era può comprendere fino in fondo cosa abbia significato vederlo giocare e vincere con la maglia azzurra. Ecco cosa succedeva quando scendeva in campo
Tutti gli articoli di Sport
PHOTO
Oggi dio compie 60 anni. Ma non se li porta bene. Imbolsito, ingrassato e claudicante su gambe usurate dalla vita che spesso l’ha spinto a cadere in ginocchio. A guardarlo oggi non ci crederesti mai che trent’anni fa camminava sulle acque verdi dei campi di calcio e dispensava miracoli ai suoi fedeli, ogni domenica radunati in massa in quell’enorme tempio pagano che domina il quartiere di Fuorigrotta, a Napoli.
E io c’ero al San Paolo quando levitava e sovvertiva le leggi della fisica, quando guizzava tra gli avversari che sembravano fermi in un’altra dimensione spazio-temporale. C’ero quando a bordo campo si riscaldava palleggiando con un’arancia e poi, in partita, moltiplicava palloni con assist disegnati al millimetro nel cielo blu di una città dolente e grata perché finalmente riscattata. Una città che grazie a lui divenne consapevole e moderna, innescando un cambiamento epocale che allora soltanto in pochi potevano intuire. Una città che, nonostante il suo contributo millenario di storia e cultura, non aveva mai preso coscienza, fino a quel momento, del suo protagonismo, rassegnata a fare da spalla nella rappresentazione di un’Italia che aveva molto più a nord il suo baricentro.
Poi arrivò lui. Scese dal cielo in elicottero nel giorno della sua presentazione ai tifosi, atterrò al centro del rettangolo verde, e tutto cambiò.
Quando appariva in campo con la maglia azzurra, il numero 10 sulla schiena e i suoi apostoli vestiti come lui, dalle tribune brulicanti di adepti in adorazione si alzavano salmi e canti sempre uguali, urlati al cielo affinché li sentisse bene e concedesse i suoi favori. “Maradona è meglio e Pelè”, intonavamo. E poi: “Mamma, sai perché mi batte il corazon? Ho visto Maradona e, mamma, innamorato son”. Preghiere semplici e banali. Preghiere di popolo, che nei momenti di maggiore estasi, quando magari aveva appena suggellato la vittoria con una magia destinata a restare impressa nella memoria, si tramutavano in un inno universale: “Ohi vita, ohi vita mia…”.
Impossibile per chi non l’ha vissuto immaginare davvero cosa significhi sentir risuonare un intero stadio, colmo di 80mila anime convinte di essere finite in paradiso, delle note e le strofe di quella canzone, che niente ha a che fare con il calcio ma solo con i sentimenti più struggenti. Una canzone che era una promessa di amore eterno mai tradita, nonostante le miserie umane di un dio del calcio che quando si faceva uomo ripiombava nella banalità dell’esistenza che ognuno sperimenta, con errori, debolezze e colpe. Tante colpe. Dall’abuso di cocaina ai figli non riconosciuti. Ma nulla riusciva a scalfire la sacralità delle sue parabole, architettoniche traiettorie che indicavano la via per la redenzione di un popolo. Nulla riusciva a compromettere la sensazione, quando affondava i tacchetti nell’erba, di essere in presenza di un atleta soprannaturale, capace di disegnare arabeschi di perfezione calcistica negli occhi di chi guardava. Questo era Diego. Questo è anche oggi. Buon compleanno dio.