L’impresa

Alpinismo, il calabrese Francesco Lagatta conquista la vetta turca del monte Ararat

VIDEO | Insieme all'escursionista di Praia a Mare, c'erano anche i lucani Miriam Gioia, di Latronico, e Giuseppe Limongi, di Lauria, e un quarto giovane di origini turche. L'ascesa è stata compiuta all'alba del 7 luglio scorso

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di Francesca  Lagatta
9 luglio 2024
20:01

Francesco Lagatta, 43 anni, di Praia a Mare, ha compiuto la straordinaria impresa di conquistare la vetta del monte Ararat, al confine tra Turchia e Armenia, alto 5.137 metri. Il traguardo è stato raggiunto alle 6.20 del 7 luglio scorso. Insieme al calabrese Francesco Lagatta, appassionato di sport estremi ed escursionista esperto, c'erano i due lucani Miriam Gioia, di Latronico, e Giuseppe Limongi, di Lauria, e un terzo ragazzo, che ha invece origine curde. La scalata, durata tre giorni, è avvenuta in condizioni climatiche proibitive, ma ha regalato ai partecipanti emozioni uniche. A poche centinaia di metri dalla vetta, il quartetto ha incontrato sul proprio cammino un gruppo di giovani polacchi, impegnati nella stessa impresa.

Dal diario di Francesco

Francesco La Gatta, 43enne calabrese, appassionato di sport e natura, sta scrivendo in questi giorni una sorta di diario per appuntare sensazioni ed emozioni di questa impresa. Alla nostra redazione affida la pagina del terzo giorno di viaggio, che li ha poi visti conquistare la cima del monte Ararat. «Vorrei poter cominciare con le parole “Al risveglio…” ma non posso, in quanto non c’è stato, nemmeno stavolta, un minuto di sonno - comincia il suo racconto -. All’ora stabilita la guida curda ci sveglia (si fa per dire) e annunciano: “We have a problem”. In effetti non si può dar lui torto. In base al piano A (non esiste nessun piano B), in caso di “wind problem” si annulla! Ci mettiamo nelle tende, sconsolati. Dopo un venti minuti si vede un'altra spedizione che parte, mi metto a gridare, andiamo, si va in cima. E così avviene. È ancora buio fondo, è l'una è trenta, e ci si incammina su in fila indiana con le torce frontali. Della monotona salita nel buio ricordo pochi dettagli, se non la concentrazione e la fatica, causate non tanto dalla difficoltà o dalla quota, quanto dalle folate implacabili. Alle luci dell’aurora Giuseppe mi dice che siamo sopra la quota del Monte Bianco. Ormai si sta facendo chiaro e sta per cominciare il tratto ghiacciato della salita: gli ultimi 300 metri di dislivello sul cupolone glaciale, un vento fortissimo e le nuvole che scorrono sotto fortissime. 'Sto vento che non ha pietà di noi: è quasi impossibile. In quest’ultimo tratto il gruppo si disunisce e ognuno sale col passo che le proprie forze e il proprio allenamento gli consentono. Solo nel primo tratto bisogna camminare a rispettosa distanza da un baratro che si spalanca sulla destra, ma presto la pendenza si fa più dolce. Ed eccoci sul tetto dell’Armenia e Turchia, più lontano l'Iran. Due di queste svettano sulle altre: quella a destra è la cima. Un’ultima rampa nevosa, e ci siamo».


La conquista della vetta

«Monte Ararat, 5.137 metri. Ci abbracciamo, non riusciamo a parlare. Scende una piccola lacrima che mi si ghiaccia. Non c’è nulla, se non un palo piantato di traverso. E, soprattutto, il nulla è sopra di noi e intorno a noi. Sulle vette delle Alpi, si è comunque circondati da un’infinità di profili di monti. Qui, da nulla. Infatti le montagne alte più vicine, e cioè il Grande Caucaso, distano centinaia di chilometri. Tutt’intorno si indovina appena l’altopiano al di sotto della coltre di foschia giallastra. La maggior fatica della giornata, però, ci attende ancora: in discesa non sono previsti bivacchi, per cui tocca percorrere in un’unica tirata i 3000 metri di dislivello compiuti nei tre giorni di salita. Al campo 2, dove avevamo previsto una sosta, veniamo sorpresi da una bufera che ci dà solo il tempo di fare pipì a cielo aperto e nemmeno dieci minuti di riposo. Si scende al campo 1, con raffiche impressionanti, ma ci si gode la soddisfazione della vetta raggiunta».

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