Il 26 gennaio del 2020 il mondo dello sport perdeva un tassello, una pedina di un puzzle che non sarà mai più completo. Due anni fa moriva Kobe Bryant. La tragica scomparsa a causa dello schianto del suo elicottero, che avrebbe dovuto portarlo a una partita di basket nell’area metropolitana di Los Angeles. Nell’incidente morirono altre sei persone che erano a bordo, tra cui la figlia Gianna Maria di appena 13 anni.

Destini incrociati

Cinque anelli, due titoli MVP in NBA, un oro olimpico, la seconda prestazione per punti della Lega americana con 81 canestri. Ricordarlo per i risultati agonistici, però, sarebbe superficiale, ingeneroso. Kobe non era un semplice sportivo, non ne incarnava semplicemente una mentalità. Kobe era una mentalità. L'idea di spingersi oltre il proprio limite, la forza di procurarsi e vivere attraverso il sacrificio. La Mamba mentality, che gli ha permesso di partire dal fondo e di arrivare nell'Olimpo del basket.

Un percorso che ha regalato a Reggio Calabria la possibilità di esserne tappa, di intrecciare seppur in minima parte, il proprio destino con quello del campione capace di vincere tutto con i Lakers. Sarebbe bello, in città, vedere una via, un playground, un canestro intitolato a Kobe. Un personaggio totale, iniziatosi a costruire in riva allo Stretto guardando il papà militante nella Viola, un po' come tutti noi.

Il suo insegnamento, tragicamente postumo, dev'essere proprio questo: ognuno di voi, di noi, può farcela. A realizzare e realizzarsi, a compiere qualunque impresa. Nello sport, nella vita. Kobe ha lasciato questo, oltre ad un vuoto tremendo, che non potremo mai colmare.