Batte un potente cuore di tenebra nel petto della Berlinale che ha accolto tra gli applausi la prima del film “Una Femmina”, del regista cosentino Francesco Costabile, opera anomala e differente in cui leggi dominate dalla malavita, dalla lama e dal sangue, dominano su un cosmo quasi post-apocalittico abitato da uomini animaleschi che sovrastano donne in lutto dalla nascita.

La malacarne, l’abuso, la soppressione di ogni libertà, la pietra dei casolari e il fango degli ovili sono l’habitat naturale di una storia che attinge dalla cronaca, dalle storie, vere, di donne che hanno alzato la testa per guardare oltre la coltre di nebbia cercando un futuro più magnanimo del loro presente nero. Non certo una battaglia facile, confrontarsi su un terreno tanto battuto e così discusso e tirarne fuori un film sincero, visionario e alieno rispetto alla filmografia esistente.  

Vendette e trame sono ordite nei bordi dei veli di spose stregate, quasi amazzoni, ricami ai margini di uno sputo sociale in cui macerano gli ultimi brandelli di una varia umanità, che spara ai propri figli per lavare il disonore, e non conosce empatia. 

L’opera di Francesco Costabile, in concorso nella sezione “Panorama” (giovedì il debutto in Calabria al cinema Citrigno di Cosenza), gronda del dolore di donne ingabbiate in carceri d’omertà, violentate nelle loro menti e nei loro affetti, quasi possedute da demoni che guazzano di fango gli spiriti di chiunque gira intorno a quel cerchio infernale. Il regista, usa un linguaggio che attinge dall’inconscio per dipingere quadri che somigliano a incubi, giocando con i suoni e i contrasti rotti dall’arancio folgorante delle luci di strada, dei quartieri antichi, usando con sapienza i fuochi e le tinte, le sfocature e le sonorità profonde e ipnotiche, senza timore di spingere il dramma fino agli antipodi del possibile.

Una sapienza cinematografica, una manualità e conoscenza, che esplodono in questo film nato dopo due anni, girato in Calabria, tra il Cosentino e l’Aspromonte, e che ora, meritatamente, ha cominciato il suo cammino di successo. A tracciare la strada maestra dell’opera, è stato il libro di Lirio Abbate: “Fimmine ribelli”, da cui è nato il soggetto scritto dallo stesso Abbate con da Edoardo De Angelis. Da lì è partito il regista Francesco Costabile, nato a Cosenza, autore rivoluzionario di cui sentiremo parlare a lungo.

Costabile, lunghi applausi a Berlino per la sua prima, se l’aspettava?
«Devo dire la verità: un po’ sì. Intorno al film si è creato un amore incredibile e questo mi ha emozionato forse più della proiezione stessa».

Si è creata una sorta di piccola comunità intorno a lei.
«Vedere tanta gente che a sue spese ha preso un aereo per assistere alla proiezione mi ha commosso. C’erano più di settanta persone che sono arrivate qui dalla Calabria: attori, maestranze, produzione. Il momento più bello è stato ritrovarsi tutti insieme prima del red carpet».

Come una famiglia.
«Ho sentito forte l’abbraccio caloroso di tutti quelli che hanno amato il film. Creare questa entità, anzi, questa bambina, visto che è una femmina, per me è stato incredibile».

Partiamo dal principio, come si fa con le buone storie: quando ha letto il soggetto cosa ha visto immediatamente?
«Ho pensato che non volevo fare l’ennesimo film di genere sulla mafia e la ’ndrangheta dove venisse fuori una spettacolarizzazione del mondo criminale che finisce per diventare seducente. Desideravo dare un cuore a questa materia».

Che è una materia dura e piena di spigoli.
«Il libro di Abbate, che ha ispirato il film, è una storia di violenza sui corpi delle donne, di oppressione psicologica. Questo era per me il nucleo drammaturgico che avrebbe potuto trasformare l’opera in un film universale che parlasse tante lingue».

Da dove nasce questa violenza secondo lei?
«Io credo che ogni uomo dovrebbe trovare il proprio equilibrio con l’universo femminile, così come diceva Jung. Se non accogliamo il nostro essere fluidi ma continuiamo a creare separazioni tra generi, non riusciremo mai a cambiare nulla. La ’ndrangheta nasce anche da una struttura maschilista e patriarcale di una società che ha fatto delle donne delle ancelle. La loro ribellione ha curvato un sistema consolidato da decenni ma non è facile reagire quando ci sono di mezzo familiari».

È molto destabilizzante, forse fuori natura, pensare che qualcuno con cui hai un legame così stretto ti stia facendo del male, reagire diventa complicato.
«Fassbinder, che è un regista a cui mi sento molto legato, diceva: “Si uccide solo chi si ama”. In alcuni casi forse bisogna trovare questo coraggio, in senso metaforico, per liberarsi da gabbie asfissianti».

Il personaggio di Rosa, la protagonista, è un po’ un centro in cui confluiscono tante storie vere.
«Il lavoro che abbiamo fatto è stato quello di sintetizzare in lei più eventi realmente accaduti. In Rosa convivono le anime di diverse femmine ribelli: Giusy Pesce, Maria Concetta Cacciola, Rosa Ferraro, Simonetta Napoli e soprattutto Denise Cosco, la figlia di Lea Garofalo».

Tutte sognavano un’altra vita, inseguivano la speranza.
«Ho letto le carte processuali della vicenda di Lea Garofalo, è stato straziante leggere le parole di sua figlia. Lei è stata forse la figura che ha maggiormente delineato la psicologia della mia protagonista».

Nel suo film c’è una scelta estetica precisa, coraggiosa, che attinge dalla materia dell’onirico, quasi del surreale. Ha come inserito la ’ndrangheta nella scatola dell’incubo, dell’horror. Quando ha iniziato a vedere il film e a capire cosa sarebbe diventato?
«Man mano che facevo i sopralluoghi e costruivo il mio cast artistico. Le facce e i luoghi mi hanno guidato nella costruzione dell’immaginario. A un certo punto ho sentito la necessità di affrancarmi da una visione prettamente realistica per andare più in profondità, in fondo è un film che parla di un trauma psicologico: Rosa deve risvegliarsi da una sorta di sonno e riagganciarsi a un momento di rottura avvenuto quando era bambina. Da lì cambia tutto».

Un lavoro di scrittura complesso, che scava nel subconscio.
«Sono partito dagli archetipi per arrivare all’immaginario e alla costruzione di una messa in forma. Volevo creare per lo spettatore un luogo dove abbandonarsi e vivere un’esperienza in cui la drammaturgia assumesse quasi la forma di una tragedia greca. L’arte aiuta a entrare nei meandri della realtà così da toccare le corde più profonde».

Ha costruito una breccia in un sogno per vedere cosa c’è sotto.
«La verità è che siamo vittime di un’idea distorta di realtà, tutta occidentale».

Cosa intende?
«È che consideriamo la realtà come un fenomeno immutabile o leggibile con un’unica interpretazione. Questo pregiudizio permea anche il cinema. Si dice, spesso, che se non si aderisce a un’idea neorealistica, chiamiamola così, della storia si tradisce la realtà. Non è così. L’arte ha il compito di costruire una forma per trasfigurare la realtà, altrimenti dovremmo buttare all’aria millenni di letteratura e anche la Divina Commedia di Dante».

Torniamo al film, Lina Siciliano, che dà il volto a Rosa, è al suo debutto ma i suoi occhi non si dimenticano,
«L’ho trovata da subito potentissima. È riuscita a mettere dentro al personaggio il suo vissuto».

Quando ha capito che Rosa era proprio lei?
«Dal primo provino. Aveva questa forza straordinaria nello sguardo, un misto di rabbia e profondità esplosive. È stata la prima a essere provinata, poi è rimasta fino alla fine. Abbiamo poi interrotto le riprese quando è rimasta incinta ma ne è valsa la pena aspettarla».

La gravidanza ha influenzato il suo approccio col personaggio?
«Lina lo diceva spesso: “Luca doveva nascere”. Le ha dato una forza incredibile. Lei allattava e noi giravamo tra una poppata e l’altra. Spesso nei momenti più drammatici del film si agganciava col pensiero al suo bimbo e a questo sogno, diventato realtà, di costruire una famiglia visto che lei una famiglia non ce l’ha mai avuta».

Ogni opera parla dell’autore, cosa dice di lei questo film?
«Intanto mi ha dato l’occasione di ritornare nella mia terra e di conoscerla a fondo, come mai avevo fatto prima. Questo mi ha portato a riflettere su tante cose».

È stato doloroso?
«Tornare porta sempre a interrogarti su te stesso, capire come sei e perché sei. Siamo connessi alla nostra storia, questo è innegabile, nel bene o nel male siamo frutto del nostro passato. La Calabria, per me, è una sorta di territorio dell’anima, anche se la lasci ti segue ovunque».

Ombre e luci.
«Ho dovuto lavorare tanto su di me, tornare qui mi ha portato a ricordare il passato, le mie lotte per emanciparmi e liberarmi da sistemi oppressivi, patriarcali, maschilisti che mi stavano stretti».

Si è mai sentito in gabbia?
«Ho vissuto nella Cosenza degli anni 80 e 90 quando voler fare il regista, voler esprimere se stessi, difendere la propria natura o, semplicemente, decidere di portare i capelli lunghi non era così facile. Ho sentito tutto il peso del giudizio maschile, ma mai della mia famiglia che mi ha sempre supportato. In questo la storia di Rosa mi assomiglia, questa ribellione che monta a un certo punto, è un po’ quello che è successo dentro di me».

Come Rosa, lei il velo nero l’ha tolto?
«Con grande orgoglio e lo sto facendo anche ora. Questo film mi ha dato la possibilità di espormi pubblicamente ed è importante che le persone come me lo facciano. Un ragazzo calabrese che veniva dal nulla, con le sue diversità, fragilità, timidezze ce l’ha fatta, è arrivato fin qui a Berlino, questo credo sia un incoraggiamento anche per gli altri. La diversità è una ricchezza, l’omologazione mi fa paura».

Oltre a questo cosa le fa paura?
«Il giudizio mi fa paura. Anche durante la proiezione in sala non facevo che guardarmi intorno per cogliere movimenti, distrazioni del pubblico che magari interpretavo come segnali negativi. Le instabilità sono una mia costante».

Chi l’ha fatta innamorare del cinema?
«David Lynch, a nove anni».

Era molto piccolo.
«Vidi per la prima volta Twin Peaks in televisione. È stata una folgorazione. Lynch ha portato il cinema sul piccolo schermo e io ho scoperto quel mondo in modo anche traumatico, perché ero solo un bimbo. Quella è una serie che parla di abusi, violenze, incesti. È stato un incubo che però mi ha salvato».

C’è una brezza di Lynch che abita le stanze del suo film, si avverte.
«Lui mi ha sempre accompagnato, mi ha insegnato cosa vuol dire creare universi sensoriali. “Fuoco cammina con me” in fin dei conti cos’è se non un dramma familiare che racconta di abusi, oppressioni. La nostra Rosa è una sorta di Laura Palmer calabrese, una ragazza che cerca di sbarazzarsi dei mostri che abitano nella sua stessa casa».