L'unica serie italiana in concorso al prestigioso festival europeo Series Mania vede nel cast Luca Zingaretti nei panni del direttore di un carcere al confine tra bene e male
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È una storia che comincia con un Re ma non è una favola, non ci sono castelli ma celle, molti soldati, sudditi, teste calde, mura alte, cielo nero. In un girone in fondo a un Flegetonte di confine, si affaccia il direttore Bruno Testori, il Re del carcere San Michele che raccoglie la plebe del peccato.
Lui non è il male, non è il bene, vive in quella sfumatura che tende allo scuro, e in una terra di mezzo ha trovato conforto ed equilibrio. Non durerà. La staticità non è una condizione naturale, il cambiamento lo è, l’evoluzione lo è. La morte entra nel regno del sovrano e spariglia le carte, strappa via le maschere.
Le prime due puntate della nuova serie Sky (una produzione Sky Studios con Lorenzo Mieli per The Apartment e Wildside, entrambe società del gruppo Fremantle, in collaborazione con Zocotoco), andate in onda il 18 marzo scorso, hanno subito mostrato che “Il Re” fa sul serio. Dietro la macchina da presa del primo prison drama italiano c’è Giuseppe Gagliardi.
Il regista, classe ’77, nato a Cosenza con radici ben salde a Saracena, s’è formato sul terreno fertile del documentario, debuttando al cinema con “La vera leggenda di Tony Vilar” (nel cast Peppe Voltarelli che fa un cameo anche nella serie Sky), un piccolo cult che approdò nella prestigiosa vetrina del Tribeca a New York. Poi ci fu “Tatanka”, tratto da un racconto di Roberto Saviano, e la fortunata trilogia “1992-1993-1994” con l’intermezzo di “Non uccidere” andato in onda sulla terza rete Rai. Adesso Gagliardi torna in televisione ancora per Sky e affronta le atmosfere listate di nero di un carcere di pietra dall’aria ancestrale, un mondo parallelo che capovolge esistenze e percorsi di vita.
Gagliardi, un dramma carcerario in Italia non s’era mai visto.
«È stato entusiasmante creare un prototipo. Dal momento in cui ho deciso di accettare la direzione della serie, ho smesso di guardare prison drama perché volevo attingere da un immaginario personale, costruito negli anni».
Ci sono delle atmosfere un po’ retro.
«Sì perché volevo che non ci fosse una dimensione temporale precisa. Ho scelto delle lenti anamorfiche degli anni Settanta per vestire la serie con lo stile dei film di una volta. Insieme al direttore della fotografia e allo scenografo abbiamo lavorato pensando proprio a un modello classico di riferimento. Per alcuni movimenti macchina le ispirazioni sono state i vecchi film di Scorsese e di De Palma che avevano un tocco di artigianalità, non volevo immagini laccate, preconfezionate».
Si nota anche la mano del documentarista che è parte del tuo passato.
«Anche questo lo considero un omaggio al cinema di un tempo, alcuni personaggi sono stati scelti nei mercati, per strada, per renderli ancora più autentici».
“Il Re” è un progetto che ha visto la luce oggi ma parte da lontano.
«Io sono stato coinvolto nel 2019 e l’idea già era in nuce. Durante la lavorazione abbiamo vissuto in pieno il periodo del Covid e non è stato semplice gestire un set di questo tipo tra mascherine e limitazioni, ma tutta la troupe è sempre stata molto affiatata. La serie ha un tono cupo ma dopo lo stop ci rilassavamo e Luca Zingaretti diventava il mattatore di fantastiche parodie delle scene appena girate».
Nella serie il carcere rappresenta un microcosmo quasi alieno, non è solo uno sfondo ma diventa un po’ anche un personaggio.
«L’uso delle lenti panoramiche ci ha aiutato a inglobare quanto più ambiente possibile in ogni inquadratura. Ne “Il Re” il carcere non è mai un elemento secondario, al contrario, e l’ottima resa è stata il frutto del grandissimo lavoro degli scenografi».
Dove avete girato?
«In parte nell’attuale Museo delle Carceri “Le Nuove” di Torino e in parte nel vecchio carcere abbandonato di Civitavecchia».
Parliamo del personaggio del Re, interpretato da Luca Zingaretti, che balla tra due anime. Ha una sua idea di giustizia, alterna tenerezza a lati oscuri.
«Luca è stato un eccezionale equilibrista ed è riuscito a creare le sfumature giuste tra il privato di Testori e la sua vita in carcere. La cosa più interessante per un regista è poter avere tra le mani un personaggio complesso e sfaccettato. È chi guarda che deve farsi un’idea, non spetta a noi autori esprimere giudizi o fare la morale, questa è l’unica strada percorribile per non cadere nella retorica».
Il San Michele è una linea d’ombra, oltrepassato quel confine le persone è come se cambiassero volto e personalità.
«È un luogo popolato da uomini che fanno un lavoro particolare e si devono assumere la responsabilità delle loro scelte, pagando un certo prezzo».
E poi ci sono le donne che minano un regno che finisce per vacillare.
«Le donne della serie sono quelle che mettono in crisi il Re, mostrano la sua debolezza, le sue fragilità. Hanno un ruolo fondamentale: da un lato c’è il pm Laura Lombardo che cerca di fare luce sul mistero, dall’altra la figlia e la moglie di Testori e poi c’è Sonia Massini, la guardia carceraria, che è un personaggio inedito nel panorama filmico italiano».
C’è stato un momento della lavorazione che ti è rimasto dentro?
«Giravamo delle scene di rivolta quando venne alla luce lo scandalo del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ecco, lì ho sentito un forte senso di responsabilità sulle spalle. La realtà ci ha affiancato nella lavorazione, è stato strano, forte».
Le serie vivono un momento d’oro, questo fermento, questa super produzione, alla lunga, potrebbe incidere, nel bene o nel male sulla qualità delle opere?
«Mi auguro che la politica editoriale delle varie piattaforme vada sempre più nella direzione delle idee. Se si depotenzia il potere degli autori il rischio è quello di fare prodotti standardizzati, ripetitivi, già visti. Se, al contrario, questa fertilità produttiva porterà allo sviluppo di progetti originali, allora sarà tutto di guadagnato».
E l’Italia potrebbe fare anche scuola all’estero, come è già accaduto. Il “Re” ne è un esempio perché in questo momento è in concorso al festival Series Mania, uno degli appuntamenti più importanti al livello europeo.
«È l’unica serie italiana in gara e lì a Lille abbiamo visto un’attenzione incredibile da parte della stampa. La nostra industria è molto apprezzata nel mondo e questo aspetto andrebbe raccontato di più, sarebbe un modo per accendere una luce su questo nuovo mondo che si sta sviluppando velocemente. Sky dà molta attenzione ai talenti e agli autori e su questo ha forgiato una certa politica editoriale. Libertà creativa significa accogliere idee innovative e autentiche che poi sono quelle che hanno da sempre contraddistinto la nostra produzione cinematografica famosa nel mondo».
Quando tornerai al cinema?
«Sto scrivendo un film con Stefano Sardo che è lo sceneggiatore con cui ho lavorato in “1992”, ci tengo molto e spero di iniziare a lavorarci l’anno prossimo. Al momento non posso dire altro, solo che sono felice di lavorare con Nicola Giuliano della Indigo».
La sala è un primo amore che non si dimentica mai.
«La serialità per come è concepita oggi si presta anche al grande schermo. Sarebbe bello se le serie arrivassero anche al cinema».
Così ogni settimana, invece che sul divano con la birra in mano, saremmo tutti in fila al cinema per sapere come va a finire la puntata…
«È un’utopia».
Fantascienza a parte, in Calabria, quando tornerai?
«Beh, spero presto. Ci sono dei progetti interessanti che sto valutando, vedremo che succederà».