A fine spettacolo, subito dopo il classico inchino al pubblico, Marco Travaglio legge gli exit-poll in diretta. Solo applausi per la gente in sala, quando dalle prime letture si capisce l’andazzo di una nottata di trionfi per chi della vecchia politica ne ha piene le scatole. Virginia Raggi è il nuovo idolo, ma Chiara Appendino stupisce e qualcuno prega che il sogno si avveri. Su Gigino De Magistris non si scompone nessuno, “tanto – commenta Travaglio – vincerà a mani basse”. Tutto confermato questa mattina. E così lo spettacolo di ieri sera al teatro Grandinetti, che chiude in bellezza la stagione di “Trame 2016”, diventa il salotto buono per fare un po’ di dietrologia, in attesa forse di un futuro diverso. “Slurp” è un concentrato di bellezza nostrana per persone dalla memoria corta. In un’ora e mezza il direttore de “Il Fatto Quotidiano” assieme ad una splendida Giorgia Salari ripercorre 20 anni di bel Paese, di leccate e ruffianate memorabili nei confronti dei potenti da parte di giornali e giornalisti accondiscendenti. Travaglio disegna la parabola del marchettaro medio, che si accredita spontaneamente alla corte del politico di turno, senza che magari tale piacere intellettuale gli venga chiesto. Un modo, tipico dell’informazione di casa nostra, che serve per rimanere in piede, per frequentare i salotti buoni della Roma governativa. Tanti, troppi giornalisti pronti a “sversare chilometri di saliva”. Eccetto, ovviamente, quelli pagati da Berlusconi. Nei prezzolati del Cavaliere c’è una sorta di poetica del kamikaze, a difesa costante e nonostante tutto dei suoi errori politici e umani. Ora, stare qui a fare l’analisi logica dello spettacolo di ieri sera è inutile, quanto difficile. In fondo “Slurp” è già chiaro nel titolo: cambiano i pupi, ma la sostanza è sempre la stessa. La nostra stampa è carica di ruffiani di professione, di gente che – come direbbe Victor Hugo – “pagherebbe per vendersi”. Gente che sarebbe tenuta ad essere, per ruolo ed etica, come “il cane da guardia del potere”, mentre alla fine è solamente “il cane da compagnia, o da riporto”. Stendiamo, dunque, una bella lingua pietosa.

 

L’incontro con Marco Travaglio di ieri, specie in una regione particolare come la nostra, ha una sua importanza per diverse ragioni. La prima è di tipo sociale. Poche persone delle spessore intellettuale e fortemente critico passano da queste parti. Si è costretti ad assistere quasi sempre a retoriche di palcoscenici trasudanti noia e autoreferenzialità. Il tavolo è sempre il misero pezzo di legno coi microfoni a gelato e le bottiglie d’acqua con sotto il nome dei relatori. Il pubblico è sempre quello portato a forza, “cammellato” per interesse personale e convenienza. La secondo è di tipo politico. Qui da noi i gestori della cosa pubblica non mostrano il minimo interesse per il vero cambiamento. Non esiste, o quasi, l’opinione e talvolta, quando viene liberamente espressa, si muove immediatamente querela a scopo intimidatorio nei confronti del tizio temerario che ha osato scrivere.

 

La riflessione, a margine dello spettacolo di Travaglio, sentendo pure le tante risate in sala, è che fintanto si parla di uomini e donne lontani dalla Calabria tutto è lecito e la satira è ben vista e apprezzata. Quando poi si vorrebbe utilizzare lo stesso metodo in casa propria, le stesse risate non vengono promosse pubblicamente, ma al contrario ci si autocensura per necessità. Si legge, ma non si condivide, non ci si espone. Ecco, questa regione è indietro ancora proprio nella convinzione che esprimere il proprio pensiero sia un errore. Una sensazione più marcata nelle piccole realtà locali, dove vuoi o non vuoi ti conosci con il sindaco, con la moglie e i parenti del sindaco, del consigliere e via dicendo. Immaginate se un giornalista “buono” si alzasse la mattina e iniziasse a menare contro Mario Oliverio, Enza Bruno Bossio, Giuseppe Falcomatà, Iole Santelli e tutto il carrozzone. Tutti, o quasi, sempre a tessere le lodi di questo o quel personaggio. Nemmeno quando la magistratura interviene per, magari arrestare un politico calabrese, il giornalismo nostrano si scompone. Si diventa improvvisamente iper-garantisti. Vedi, per esempio, la vicenda Sandro Principe. Nemmeno una parola d’inchiostro per sottolineare quanto meno il profilo oscuro dello storico sindaco di Rende. Manco con Giuseppe Scopelliti ci è sforzati, nonostante le sconfitte in tribunale. Anzi, la stampa settimana scorsa per tutta risposta titolava a 7 colonne della dolce attesa della moglie.

E’ la stampa, bellezza.