Ci sono gli attori e poi ci sono gli attori veri. Li riconosci dopo una manciata di battute, uno sguardo obliquo, un palpito. Non sono interpreti di un personaggio ma in scena sono il personaggio. Alessio Praticò, classe ’86, nato a Reggio Calabria, è uno dei quelli bravi davvero, una specie di mosca bianca, che sa bene quanto il mestiere dell’attore sia un terreno franoso e sdrucciolo se non si affronta con passo leggero e sicuro. Le ossa le ha indurite sulle assi del Teatro stabile di Genova, poi il debutto in sala con Filomarino e dopo Marco Tullio Giordana, Bellocchio, Sorrentino.

Vola tra un set e l’altro Alessio. Ieri era sul set dell’attesissimo ritorno di Boris, oggi è tra i protagonisti della nuova serie Sky Blocco 181, domani lo vedremo nei panni di un padre lontano, nel film in lavorazione in questi giorni nel Crotonese tratto dal romanzo di Carmine Abate La festa del ritorno, e ancora nei panni di un brigante nel nuovo progetto Netflix. Ma non è tutto. Sarà anche in altre due serie e in un film: nella prima produzione natalizia targata Netflix, e in un action, sempre sotto l’egida del colosso di Los Gatos, e in un altro progetto seriale Rai accanto a Sergio Castellitto, ispirato alla figura generale Dalla Chiesa.

In corsa meglio non fermarsi, neanche per riprendere fiato, no?
«Ho allenato i polmoni».

Ma tu dovevi essere un architetto e invece eccoti attore.
«All’epoca dell’Università non credevo che di recitazione potessi campare».

E invece.
«E invece mi sbagliavo… per fortuna».

Parliamo di Blocco 181, una sorta di Gomorra speziata di America Latina e calata nel quadro di una Milano periferica, lontana dai grattacieli dei giardini verticali.
«Il mio personaggio, Nicola Rizzo, è una specie di sindaco di questo Blocco. Lui non è proprio un boss, è quasi un amministratore. A differenza della banda dei sudamericani che compra il rispetto con la violenza, noi, dall’altra parte, lo facciamo attraverso il denaro, siamo una sorta di criminalità disorganizzata. E questo fa emergere l’aspetto più umano di Nicola che arriva dal mondo ultrà, è un tifoso dell’Inter, non ama i proiettili ma si troverà in situazioni difficili che dovrà gestire andando oltre i suoi limiti».

Gli effetti collaterali del classico patto col diavolo.
«Tutti i personaggi del Blocco sono mossi da uno spirito quasi shakespeariano: un’urgenza di vita o di morte, e vengono spinti a fare qualcosa per non sparire ed essere invisibili soprattutto a se stessi».

Le serie italiane hanno messo la freccia, pare.
«In Italia si è alzato moltissimo il livello, sia da un punto di vista tecnico che artistico».

Lente d’ingrandimento sulla scrittura: senti differenza rispetto a quella di progetti internazionali?
«Ormai credo che ci sia una sorta di omologazione perché anche l’Italia si sta avvicinando a uno schema, soprattutto americano, in cui è lo sceneggiatore che è considerato autore assoluto mentre il regista è solo l’esecutore che mette dentro alla serie il suo gusto estetico e la cura degli attori. Ovviamente lo schema cambia quando il regista, come è avvenuto per Blocco 181, è anche autore. Poi va detto che abbiamo importato dagli Stati Uniti anche la multiregia, quindi la consuetudine di affidare a più registi puntate della stessa serie; in questa ce ne sono tre, ad esempio, che arrivano da esperienze diverse».  

Per citare Stanis LaRochelle, abbiamo smesso di essere “troppo italiani”?
«Beh (ride ndr), in Blocco si respirava un’aria internazionale sì, ma anche molto italiana ma non nel senso che intendeva Stanis».

Restiamo sul filo della citazione di prima, tu sei uno dei nuovi arrivi di una serie davvero molto attesa, il ritorno di Boris.
«Sì, e sono davvero felice di aver partecipato a questo progetto ma non posso dire molto altro se non che con me ci sono altri due attori calabresi: Massimo De Lorenzo e Giuseppe Piromalli».

Sento odore di Calabria nello script…
«Non posso davvero anticipare nulla. Posso dire solo che, da fan della serie, trovarmi davanti a quei personaggi in carne e ossa è stato fantastico. Ricordo il primo giorno alla lettura, c’era Pannofino davanti a me che diceva con il tono di Ferretti “Ottimo!”. Strepitoso».

Torneremo alle vicende degli “Occhi del cuore"?
«Ho la bocca cucita, dico solo che, naturalmente, dall’ultima stagione sono cambiate tante cose, il mondo è diverso e quindi anche Boris si è adattato».

Criminale, padre, brigante, uomo sospeso tra il bene e il male, hai un bel carnet di personaggi ai tuoi piedi, ma che panni vorresti vestire?
«Mi piacerebbe unire il fantascientifico, il fantasy e la tradizione regionale. In Calabria ci sono posti bellissimi legati a leggende di gran fascino che potrebbero diventare spunti per dei progetti interessanti».

Un “Racconto dei racconti” calabrese, insomma.
«Un po’ sì, ma in un’ottica distopica. Se penso alla mia provincia, nell’area grecanica ci sono paesi bellissimi con miti pronti a diventare storie perfette per una serie».

Avviciniamoci. Ora sei nella provincia di Crotone con La festa del ritorno».
«È una produzione italo-francese, opera prima del regista Lorenzo Adorisio. Si ispira al romanzo di Carmine Abate ed è una storia di formazione che ruota intorno a un padre costretto a emigrare in Francia. Adesso stiamo girando a Carfizzi, Capo Colonna, Torre Melissa, Cirò e poi in autunno ci trasferiremo in Francia tra Marsiglia e Parigi».

Un padre che lascia un figlio, c’è anche molto dolore in questo film.
«C’è il racconto di quest’uomo che parte e soprattutto dell’assenza che si lascia dietro, come una scia, e che segna in qualche modo la vita di suo figlio. Però non è il solito ritratto stereotipato sull’emigrazione, è una storia universale in cui Tullio, il padre, emigra ma scopre un mondo in Francia e gli piace quello che vede, si innamora lì ma poi è costretto a rientrare in Calabria e non è facile per lui. Ci ho visto in questo una sensazione comune a noi che viviamo lontani dalla nostra terra. Proviamo amore e odio verso queste radici che ci tengono fermi ma a volte sono respingenti. La verità è che quando sei lontano la tua terra ti manca ma quando torni fatichi a starci. È una storia bella, brutta, complicata, bellissima. È un sentimento inquieto che contiene tutto questo e ci cresce».