Bagnara Calabra, provincia di Reggio Calabria. È il 20 settembre, ma in due anni diversi: 1947 e 1950. Nella stessa terra aspra di vento e di mare, nello stesso giorno che per sempre le avrebbe legate, nascono Domenica Rita Adriana Bertè, che diventerà Mia Martini, e Loredana Bertè. Due sorelle, due destini diversi, due anime inseparabili. Due espressioni di una stessa irriducibile volontà di vita, di arte, di libertà. Figlie di una Calabria che è sangue e orgoglio, dolore e resilienza.

Nate in una famiglia difficile, con un padre autoritario e violento e una madre protettiva ma sopraffatta, Mimì e Loredana imparano molto presto che per sopravvivere devono contare solo su loro stesse. Crescono tra il sud e il centro Italia, tra Bagnara e Ancona, assorbendo il rigore del sud e il fermento di una provincia inquieta.

Fin da bambine, sognano un altrove. Non c’è spazio per loro nelle strade polverose di Bagnara. La musica diventa il loro rifugio, la loro ribellione, la loro speranza. Mimì, la più grande, la più introversa, si tuffa nei dischi francesi, nelle melodie d’autore. Loredana, la più giovane, la più selvaggia, si innamora del rock, del ritmo, della provocazione. Due strade diverse, ma destinate a intrecciarsi mille volte.

Mia Martini, con quella voce dolente e sofisticata, inventa un nuovo modo di cantare il dolore. Non urla, non supplica: racconta, sussurra, scolpisce emozioni con una grazia feroce. Minuetto, Almeno tu nell’universo, Piccolo uomo: ogni canzone è un viaggio nell’abisso, una carezza sul cuore ferito. La sua interpretazione è tecnica e istintiva insieme, frutto di un talento naturale e di una consapevolezza maturata attraverso il dolore.

Mimì è la regina di una malinconia che non è mai autocommiserazione, ma resistenza. È la sacerdotessa di un’umanità dolente che non chiede pietà, ma ascolto. Le sue radici calabresi emergono nella forza con cui affronta ogni ingiustizia, nella dignità che non abbandona mai, neppure quando il mondo discografico, complice un’ignobile superstizione, le volta le spalle.

Loredana Bertè è tempesta pura. Una donna che fa della sua fragilità un’arma, del suo dolore una bandiera. Voce roca, presenza scenica devastante, Loredana rompe gli schemi, scandalizza, inventa. Dal reggae di E la luna bussò alla confessione punk di Sei bellissima, dalla rabbia di Non sono una signora all’angoscia de Il mare d’inverno, la Bertè canta la vita senza filtri, senza censure.

Se Mimì combatte con la delicatezza della malinconia, Loredana combatte con l'urlo della rabbia. Due modi diversi di reagire alla stessa ferita originaria. Due figlie della stessa terra, due sorelle cresciute nello stesso dolore, che però scelgono strade diverse per sopravvivere.

La Calabria, per Mimì e Loredana, è una ferita aperta e una medaglia d'onore. Se ne sono allontanate, certo, ma non l'hanno mai tradita. È nella loro fierezza, nella loro ostinazione, nel loro rifiuto di piegarsi alle regole non scritte dell'industria musicale. È nel loro rifiuto del compromesso, nella loro lotta continua per affermare una voce personale e autentica.

Mimì portava nella voce le ombre antiche della Calabria: la malinconia dei suoi paesi arroccati, la dolcezza severa del suo paesaggio. Loredana portava nella rabbia il vento di ribellione di una terra che non si piega, che morde il destino. Due modi diversi di essere calabresi, due voci diverse nate dallo stesso grido.

Il loro rapporto è stato una montagna russa emotiva. Amore viscerale, rivalità feroce, incomprensioni dolorose, riavvicinamenti struggenti. Si sono amate e ferite come solo le anime gemelle sanno fare. Si sono specchiate l’una nell’altra, riconoscendosi e respingendosi. Mimì era il rifugio, la madre simbolica per la giovane Loredana. Loredana era la tempesta, il rischio, la vita vissuta senza rete. Hanno condiviso amici (Renato Zero su tutti), amori (Ivano Fossati, musa per Mimì, complice per Loredana), battaglie e sconfitte.

Artisticamente, le similitudini sono profonde: l’istinto assoluto, la capacità di piegare ogni stile alla propria personalità, l’urgenza di raccontare verità scomode. Eppure le differenze sono lampanti: Mimì è classicità rivisitata, canzone d’autore sublimata. Loredana è sperimentazione, contaminazione, rottura degli schemi. Mimì tendeva all'interiorità, alla scarnificazione emotiva. Loredana all'urlo liberatorio, alla provocazione come linguaggio artistico. Entrambe, però, hanno rifiutato la mediocrità, scegliendo sempre la via più difficile, più dolorosa, più autentica.

Mimì fu condannata da viva a una morte civile, vittima di una delle più squallide aberrazioni dell’ambiente musicale italiano: l'infamante etichetta di portatrice di jella. Un’accusa assurda, nata – pare – da un rifiuto sdegnoso a un impresario senza scrupoli e alimentata da un incidente mortale avvenuto nel 1970, durante un viaggio in pulmino. Da quel momento, la superstizione più cieca e becera si scatenò contro di lei, fino a boicottarne concerti e apparizioni televisive, complice anche il cinismo di personaggi di potere come Gianni Boncompagni. Era il tipico meccanismo con cui la mediocrità si vendica del talento: colpire chi brilla troppo, chi non si piega. Perché le sacerdotesse fanno paura, e come ogni strega che sa vedere oltre il velo delle apparenze, Mia fu messa al rogo.

Un rogo che, a suo modo, avvolse anche Loredana. Additata da molti come squilibrata, autodistruttiva, alcolizzata, giudicata senza pietà da chi ignorava – o fingeva di ignorare – il peso delle ferite che portava dentro. Ma Loredana, a differenza di Mimì, ha continuato a bruciare a fuoco lento, senza spegnersi mai del tutto. Sopravvissuta a un tentato suicidio nel 1992, ai tradimenti, alle crisi più profonde, ha saputo risorgere dalle proprie ceneri. E oggi è ancora lì: punk senza età, sospesa tra indie pop e tecnorock, capace di restare fedele a se stessa anche attraversando, senza paura, operazioni commerciali che non hanno scalfito la sua anima ribelle.

Nelle loro canzoni, Mia Martini e Loredana Bertè si mettevano a nudo senza riserve, mostrando emozioni crude, autentiche, senza maschere. E lo stesso fecero anche davanti all'obiettivo di Playboy, in uno dei gesti più controversi e coraggiosi della loro carriera. Apparvero diverse, eppure profondamente simili: Loredana ostentava una sensualità rabbiosa, viscerale, esplosiva; Mimì, invece, offriva un’immagine dolce, intima, quasi eterea. Non si trattava di esibizionismo, né di una mercificazione del corpo: era, piuttosto, un modo per affermare con forza la propria identità, la propria libertà di essere donna e artista, senza vergogna né compromessi. Non a caso, Mia scelse di interpretare il brano Io donna io persona, una dichiarazione chiara contro ogni riduzione a mero oggetto.

Per entrambe, l’amore fu una terra tormentata, un campo di battaglia. Mimì visse una relazione intensa e tempestosa con Ivano Fossati, un legame potente e fragile al tempo stesso, capace di ispirare capolavori ma anche di lasciare ferite profonde. Loredana, dal canto suo, trovò in Björn Borg una passione altrettanto devastante, che ben presto si trasformò in una prigione emotiva e materiale, segnandola duramente. Dopo questi amori disastrosi, le due sorelle si rifugiarono, a volte, in dipendenze più o meno lecite, cercando sollievo dal dolore nei modi più umani e disperati. Ma anche nelle cadute, nella disobbedienza, nella trasgressione, rimasero sempre se stesse: ribelli sincere, idealiste irriducibili, incapaci di barattare la propria verità per un briciolo di conformismo.

Mimì è morta nel 1995, lasciando dietro di sé un alone di mistero e di dolore che ancora commuove. Loredana è sopravvissuta a tutto: agli amori sbagliati, alle dipendenze, ai giudizi spietati. E continua a cantare, a reinventarsi, a resistere, con quella forza rabbiosa che l’ha sempre contraddistinta.

Le sorelle Bertè sono due volti dello stesso mito: quello di un talento che nasce dal dolore, di una bellezza che non si piega alla superficialità. Due donne che hanno saputo essere fragili e invincibili, vere fino all’ultimo respiro. Oggi, ogni volta che Loredana sale su un palco, ogni volta che canta, ogni volta che urla il suo dolore al mondo, è come se lo facesse anche per Mimì. Come se, attraverso la sua voce roca e graffiata, risuonasse ancora il timbro dolce e struggente di Mia Martini. Due sorelle, due artiste immense, due donne che hanno insegnato a tutti noi che la fragilità può essere forza, che il dolore può diventare arte, che l’amore può sopravvivere alla morte.

E forse, chissà, da qualche parte, su quella piramide di cielo che ancora ci aspetta, Mimì e Loredana stanno ancora cantando insieme. Per loro, per noi. Per ricordarci che si può cadere mille volte e mille volte ricominciare. Con la voce, con il cuore, con la vita. Due sorelle calabresi, figlie di un Sud che non dimentica, e che loro, con la loro arte e la loro vita, hanno raccontato come nessun altro ha saputo fare.