Australiano per nascita ma locrese di radici, l’artista ha alle spalle una lunga carriera con registi da Oscar, da Tornatore a Scott, e sfilerà in Laguna per l’anteprima del film di Abel Ferrara
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Abel Ferrara al festival di Venezia ci torna a testa d’ariete, portando su una spalla un peso non di poco conto. La storia che presenterà in Laguna è quella di un santo, non uno qualunque, ma "il" Santo per antonomasia, al secolo Francesco Forgione, dal carattere spigoloso a tratti fumantino, le cui mani sono oggetto di culto per i segni che le attraversarono. “Padre Pio”, è il titolo secco, dice quello che deve dire senza fronzoli. Nessun giro di parole. Nel ruolo principale un redento Shia LaBeouf, frustato in passato dal venticello degli scandali, attore inquieto, entusiasta interprete dell’uomo di Pietrelcina che divenne icona, prima cattolica, poi folk. Il viso di San Pio preso di tre quarti con lo sguardo altrove, formato immaginetta, l'abbiamo visto declinato in ogni salsa: quella del mito, della leggenda, della magia, della bigiotteria persino. Sui retrovagoni dei mezzi pesanti in autostrada, sui cavalcavia, nei mucchi di libri in saldo tra le ricette della pasta e le varianti del rosario, c'è sempre lui che occhieggia da qualche copertina col titolo strillato su colori fluo.
Nel cast del film che sarà presentato il prossimo 2 settembre a Venezia per le “Giornate degli autori”, c’è Marco Leonardi. Calabrese di robusta radice locrese, di nascita australiano di Melbourne, ma per caso. Non si fa fatica a riconoscerlo perché in decenni di carriera, ha seminato e bene. Metodo attoriale rubato con gli occhi, uno stile internazionale che lo allontana (a merito) dalle gestualità e dai sospiri delle ultime generazioni di attori italiani, e physique du rôle, Leonardi è uno che di strada ne ha fatto tanta scalando a mani nude. Dagli esordi negli spot è arrivato alla partecipazione a pellicole da Oscar (“Nuovo cinema paradiso” di Tornatore) e da David (“Anime nere”); ha fatto sosta a Hollywood da quello spiritaccio di Rodriguez per “C’era una volta il Messico”, prestato volto e voce a film da incassi stellari (“Come l’acqua per il cioccolato” di Alfonso Arau).
In Italia, ha spaziato dalla tv al cinema. E ora, subito dopo Venezia, volerà a Malta. Con Ferrara non è stata una prima volta.
Leonardi, com’è iniziata con “Padre Pio”?
«Sapevo che Abel stava per girare questo film e l’ho chiamato. Appena mi risponde mi fa: “Marco! Stavo proprio parlando di te”. Il giorno dopo eravamo insieme».
Telepatia.
«Aveva visto due film in cui recitavo: “Martin Eden” di Pietro Marcello e quello di Ridley Scott “Tutti i soldi del mondo”».
Ferrara è un vulcano sul set, così dicono.
«Sono state settimane splendide con lui. È un uomo di una dolcezza incredibile, un animale da palcoscenico. Poi è meticoloso, attentissimo. Va dritto come una freccia, è uomo del Bronx, concreto, verace; non ama il patinato, a lui piacciono le sbavature, le brecce, quello che dà un senso di reale, di sporco».
Nel film “Padre Pio” lei interpreta Gerardo, un uomo dall'anima buia.
«Nel film scorrono queste due storie: da un lato quella del santo, dall’altro gli avvenimenti che nel 1920 chiazzarono di sangue San Giovanni Rotondo e che in un certo senso anticiparono la venuta del fascismo. Gerardo è dalla parte oscura della barricata. È un uomo ricco, figlio di latifondisti, non accetta che determinati ideali prendano piede e li combatte perché non li comprende».
Entrare in una storia tanto spirituale può cambiarti dentro, addirittura convertirti, pare sia successo a LaBeouf che interpreta San Pio, e in lei qualcosa ha smosso?
«Tutti facciamo delle scelte nella vita anche discutibili. Credo di aver imparato, negli anni, a mettere a bada gli istinti, almeno mi piace pensarlo. A 51 anni uno si ferma, cerca di focalizzare quello che ha fatto e quello che potrebbe accadere, e prende una certa direzione. Forse questo film mi ha insegnato a vedere certe cose con occhi nuovi, ancora più consapevoli».
Che rapporto ha con la fede?
«Non corro a pregare ma ho i miei spazi di dialogo con la divinità. Preferisco agire che frequentare una chiesa per battermi il petto. Vivo cercando di non ferire, non ferirmi. La società ti spinge a essere egoista, a fregartene degli altri, e non è sempre facile resistere. La mia fede è agire in coscienza».
I latini dicevano "agendo con rettitudine, non devi temere nessuno".
«È così che ho impostato la mia vita. Ho visto un piccolo video di Antony Hopkins, su Instagram, che ripeteva come un mantra: believe, believe. È bello credere, mi piace farlo».
Cosa ci vuole per essere un attore.
«Ci vuole tanto coraggio, forza e speranza, non è forse fede questa?»
Ha una carriera fatta di moltissimi progetti, c’è qualche film di cui si pente?
«È una domanda difficile».
Ha il sapore di un “sì”.
«Tra 75 film qualcosa che, col senno di poi non avrei fatto, c'è. Ma a pensarci bene sa che le dico?»
Che tutto è paglia da granaio?
«Meglio: che ogni cosa accade perché deve accadere, ogni viottolo, anche piccolo, anche stretto, anche sbagliato si imbocca per un motivo. Quindi riformulo: non mi pento, guardo avanti e ringrazio per quello che ho avuto fortuna di fare».
Sembra aver trovato la luce, per citare una celebre battuta.
«Sì, mi piace concentrarmi sulla luce, su quello che il buon Dio mi ha mandato, aspettando e sperando che arrivi ancora tanto altro».
Parla del grande salto?
«Io non mi sono mai fermato, sono 37 anni di mestiere ormai: ho fatto “Nuovo cinema Paradiso” a 17 anni e ora a più di 50 sarò di nuovo a Venezia. Se Morricone ha dovuto aspettare 60 anni per ricevere un Oscar alla carriera figuriamoci tutti gli altri che fatica devono fare».
Mi racconta il provino con Tornatore?
«Ero molto giovane, mi piace credere che mi abbia voluto bene. Lui aveva tutto in testa, era una macchina da guerra sul set, un genio, girava e già sapeva dove doveva agganciare una certa scena in seguito».
E Rodriguez?
«Il suo cinema è folle ma lui è un uomo molto posato, humble, umile, un vero pezzo da Novanta. Lo ricordo sempre con la chitarra tra un ciak e l’altro. Ora le racconto una cosa divertente».
Prego.
«Ero alla frontiera tra Texas e Messico, venne Rodriguez sul set di “Come l’acqua per il cioccolato” e aveva in mano una foto tratta da “Nuovo cinema Paradiso”».
Come un fan.
«Come un fan. Entra e dice: “Sono venuto qui per conoscere Totò”. Mi guarda e mi fa: “Io e te un giorno lavoreremo insieme”. Aveva con sé una telecamerina e mi mostrò delle immagini di un film che stava girando. Era “El Mariachi”, l’opera che lo portò dritto tra le braccia della Miramax».
Rodriguez è uno di parola.
«Infatti. Dopo 10 anni ero sul set con lui in “C’era una volta il Messico”».
E se dico Ridley Scott.
«Ridley? Le racconto solo questo: primo giorno, prima scena. Io arrivo, mi trovo tre macchine davanti. Mi fermo, dico: ehy wait… che succede qui? Lui toglie le cuffie, si avvicina e mi spiega nel dettaglio cosa quelle camere inquadravano e che movimenti aveva in mente di riprendere. Poi mi ha ringraziato per la pazienza con le mani giunte. Che umiltà, che grandezza».
Calabria, al cinema viene proiettato “Anime nere”, uno spartiacque per il genere.
«Quando ho letto il libro di Gioacchino Criaco e parlato con il regista Francesco Munzi, ho subito capito che ero davanti a una cosa davvero straordinaria, nuova, fortissima. È stata un’esperienza intensa che ci ha travolti emotivamente tutti. È un dramma che scorre lungo una catena che viene spezzata in un modo così drammatico che è spiazzante».
Guardiamo al futuro.
«Mi piace».
Nell’orizzonte breve c’è “Das Boot”.
«Una bella serie tedesca ormai al quarto capitolo, senza spoiler dico solo che conserva un bel colpo di scena».
E poi?
«E poi un film che avevo cominciato prima del Covid, di uno straordinario regista indiano: Gautam Ghose, una sorta di Rossellini indiano, un artigiano del cinema».
Niente Bollywood.
«Non siamo da quelle parti».
Squilla il telefono, quale regista le piacerebbe dall’altro capo?
«Walter Salles, vorrei tanto che mi chiamasse. E anche Xavier Giannoli».
Sogno proibito.
«Ce l’ho: Almodovar».
Nel cinema i miracoli accadono.
«Tutti i giorni, perciò continuiamo a crederci».