Francesco Dodaro e Nella Infelise sono due impiegati della Soprintendenza di Cosenza. Due amministrativi senza competenze specifiche nel campo dell’archeologia, ma con una grande passione per le passeggiate nei boschi della Sila, magari alla ricerca di funghi. Compagni di lavoro e nella vita, un paio di anni fa, al termine di una domenica di fine estate, passeggiando mano nella mano sulle rive del lago Cecita restituite alla luce da una stagione delle piogge non particolarmente generosa, la coppia notò alcuni pezzi di ferro semi sepolti nel terreno. Ne raccolsero uno, ignorandone la provenienza, e lo portarono a casa. Un soprammobile originale e nulla di più.

La curiosità suscitata dai racconti del soprintendente

Quando alla guida della dell’ente per la tutela dei beni storici e artistici è giunto Mario Pagano, di professione archeologo, chiacchierando del più e del meno Francesco e Nella parlarono con lui anche di quel singolare ritrovamento e decisero di mostrarglielo. Alla vista di quel manufatto, Pagano ha strabuzzato gli occhi. Chi era presenta racconta sia anche impallidito. «Ma questa è una scramasax!» ha esclamato. Tradotto in linguaggio corrente si trattava di un’arma longobarda, la prima del genere mai rinvenuta in Calabria.

L’arma longobarda a guardia di un tesoro ben più prezioso

Pagano è in grado anche di datare il ritrovamento «all’agosto del 663 dopo Cristo, quando ci fu un’offensiva bizantina contro i longobardi, scaturita dallo sbarco dell’imperatore Costante II a Taranto. Il materiale abbandonato era prezioso – sottolinea - il che fa pensare ad una fuga improvvisa, dovuta probabilmente ad un attacco». Tornati sul posto il 17 settembre scorso per verificare la presenza di altri oggetti longobardi, ecco la seconda sorpresa. Spunta un crogiolo, una sorta di fucina per la costruzione delle armi metalliche: vi era dunque un'officina operante sull'altopiano. In Italia non ve ne sono altre. Ma il meglio deve ancora venire: dalle sponde di un lago mai così asciutto come in questa stagione di estrema siccità, ecco affiorare una zanna di elefante. E qui entra in gioco un’altra circostanza fortunata. Il caso vuole che a San Lorenzo Bellizzi siano all’opera gli esperti preistorici dell’Università del Molise guidati dalla professoressa Antonella Minelli. Stanno scavando in una grotta funeraria dove sono custoditi reperti antichi di almeno ottomila anni. La Soprintendenza li convoca, mentre si affretta a sottoscrivere un protocollo d’intesa con l’Ente Parco della Sila e a reperire le risorse necessarie ad avviare una prima campagna di scavo attraverso una richiesta al segretariato del ministero dei Beni Culturali.

L’elephas antiquus vecchio di 75 mila anni

Il 3 novembre scorso alcuni resti del pachiderma vengono recuperati: si tratta di un elephas antiquus. Questa specie erbivora non è sopravvissuta all’ultima glaciazione. In Europa vi sono diverse testimonianze della sua presenza. Ha abitato la terra in un ampio arco temporale databile tra i 700 mila ed i 40 mila anni fa. In Spagna e Portogallo vi sarebbero i resti più recenti. Per la Calabria si tratta di una novità assoluta. Questo esemplare potrebbe essere vissuto 75 mila anni fa. Rispetto all’elefante dei giorni nostri aveva la zanna più lunga, tre metri contro un metro e mezzo, ed una stazza decisamente maggiore. Poteva arrivare a pesare anche tredici tonnellate. Nessun collegamento dunque con gli elefanti di Annibale, giunti in Italia in epoca decisamente meno remota.

Sarebbe morto per cause naturali

Nei ritrovamenti precedenti, l’elephas antiquus appariva smembrato nelle sue diverse parti, probabilmente perché vittima della caccia dell’uomo che poi se ne cibava. In questo caso invece l’animale sarebbe morto per cause naturali: nelle vicinanze non ci sarebbe traccia di insediamenti umani contemporanei al pachiderma. C’è invece ancora molto da cercare a da asportare: per adesso oltre alla zanna, estratta insieme al cranio, è stata trovata una mandibola con un molare e l’omero di un arto anteriore. Ma il resto è ancora lì sotto, e attende di vedere la luce. L'obiettivo è quello di un'esposizione museale in Sila dopo un'opportuno restautro dei reperti.

Un giacimento nascosto sotto il lago

Le sponde lacustri conservano preziose informazioni sull’evoluzione del clima, dell’ambiente, delle specie animali e vegetali che hanno popolato la Sila nella preistoria. Certamente nell’area dell’attuale invaso artificiale, risalente al secondo dopoguerra, c’era un lago preesistente alimentato dal fiume Mucone e dai suoi affluenti. Proprio la presenza della “pozza d’acqua” avrebbe favorito l'insediamento dell’elefante antico.

Questa duplice straordinaria scoperta potrebbe aprire un’autostrada all'iter già avviato presso l’Unesco per ottenere il riconoscimento, per l’intero altopiano, di sito patrimonio dell’umanità.

I risultati di questa prima fase di ricerche sono state comunicate nel corso di una conferenza organizzata nel centro visite del Cupone alla quale hanno partecipato il sindaco di Spezzano della Sila Salvatore Monaco, il commissario dell’Ente Parco Sonia Ferrari, il soprintendente Mario Pagano accompagnato dal funzionario Giovanna Verbicaro, il maggiore Carmine Gesualdo del nucleo tutela patrimonio culturale dei carabinieri, i docenti Antonella Minella dell’Università del Molise e Felice La Rocca dell’università di Bari.

L’impegno e il disimpegno della politica

C’era anche il presidente della Regione Mario Oliverio. Ha ascoltato attentamente le diverse relazioni scientifiche, assumendo poi l’impegno di compiere ogni sforzo affinché le indagini del sito possano rapidamente proseguire. Per una volta non aveva al seguito il solito codazzo di consiglieri ansiosi di appuntarsi qualche medaglia sul petto, a cui per la verità, lo stesso governatore si mostra spesso insofferente. Il tema dell’appuntamento ha suscitato un generale sentimento di eccitazione non solo tra gli appassionati della materia. Ma non tra gli inquilini di Palazzo Campanella, rimasti alla larga da questa scoperta che gli studiosi non esitano a definire straordinaria.

Salvatore Bruno