VIDEO | Il giornalista con “Che ci faccio qui – In Scena” a Cosenza ha riempito il teatro Rendano commuovendo il pubblico
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Una donna chiede aiuto. Lo fa allargando le braccia. «Non ce la faccio più». È un’anima perduta, com’erano perdute le anime di Dante, rassegnate alle punizioni del contrappasso, anche se avevano amato troppo. Lei è come Francesca da Rimini, ha amato tanto, ma non come le convenzioni impongono, non come i pregiudizi vogliono. Domenico Iannacone nei gironi di un’Italia dove non batte mai il sole, si infila con discrezione perché, come ci dice lui stesso «le persone che raccontano le loro storie non perdano mai la dignità».
In Calabria, il giornalista di format di grande successo come “I dieci comandamenti”, torna spesso e al Rendano di Cosenza, nell'evento organizzato dall'associazione Le sei Sorelle, ha fatto il pienone. «È la terra che ho raccontato di più, insieme alla Campania, perché da questi luoghi feriti fuoriesce un’energia straordinaria». Il suo spettacolo si chiama “Che ci faccio qui – In scena”, ed è nato dalla necessità di non fermarsi quando il Covid aveva congelato tutto e tutti, rinchiudendoci in casa o dietro uno schermo. «Ci sono elementi che raccontano anche me – dice -, cose personali, ricordi, tracce. C’è il mio rapporto anche con la lingua e le parole, con la cultura con cui sono cresciuto».
C’è un grande occhio che guarda dietro le sue spalle sul palco, è lo sguardo di chi vuol capire, non giudicare le vite che racconta. E sono storie di disperazione estrema, alternate alla speranza luminosa, quelle a cui il pubblico assiste. Perché l’umanità è capace di grandi slanci e profondi incubi, come la storia di Bartolo, «un santo laico» lo chiama il giornalista, un semplice commerciante di mobili che ha messo su l’associazione Il Cenacolo, e da anni fa salire sui suoi pullman i braccianti e le famiglie in difficoltà della Piana di Gioia Tauro per portarli al lavoro. Senza voler nulla, senza chiedere niente. Per lui la vita è questa: aiutare. Ombre e luci si susseguono come in una giornata ventosa, così l’uomo mostra la sua luna: nella parte d’ombra e fredda, si muove la perduta gente nei palazzoni decadenti, adibiti a dormitori di cemento sbreccato, una volta simbolo di una ricchezza promessa, di un’industria farmaceutica che avrebbe sfornato milioni di confezioni di penicillina, e adesso cimitero delle anime che aspettano solo di sparire del tutto, risucchiate dalla terra; in quella luminosa c’è Pierpaolo, ragazzo con la sindrome di down che si occupa di sua madre malata di Alzeheimer, «mamma, che ne pensi delle nuvole?» «Boh» risponde lei. Sembrano le maschere di Pasolini che contemplano la bellezza anche se il mondo le ha trascurate.
È un’Italia nascosta dalle pieghe dei grandi eventi, quella che racconta Iannacone. In scena, il giornalista mette a nudo anche sé stesso, i suoi ricordi, il suo legame con la poesia e con il cinema. C’è la scena straziante di De Sica in Ladri di bicilette e ci sono gli angeli di Wenders, nel volto etereo di Nastassja Kinski, che guarda Berlino e un’umanità che al cielo resta sempre così vicina e sempre così lontana.