C’è stato chi ha gridato allo scandalo per il previsto trasloco della terapia intensiva pediatrica da Cosenza a Catanzaro. Un “passaggio di testimone” diventato improvvisamente notizia dopo l’articolo pubblicato da LaC News24 con le dichiarazioni del primario di Neonatologia dell’Annunziata Gianfranco Scarpelli: «La terapia intensiva pediatrica sarà appannaggio dell'hub di Catanzaro anche se Cosenza, dal 2018, opera con sei posti letto dedicati, dando risposte ai bisogni di tutta la regione. Quando Catanzaro sarà in condizione di partire noi potremo anche smettere». Un annuncio che, in realtà, non faceva che ridare fiato a quanto già previsto nel Piano di riorganizzazione della rete ospedaliera firmato dal commissario ad acta Roberto Occhiuto e pubblicato il 12 luglio scorso.

Tutto già noto dunque, o forse no, viste le reazioni. Dalla “scippata” Cosenza si è levato, tra gli altri, l’urlo di guerra del sindaco Franz Caruso, che si è detto pronto «ad alzare le barricate» contro la soluzione prospettata. E ha ragione senz’altro il primo cittadino quando dice che «tutto si giocherebbe sulla pelle di piccoli pazienti il cui diritto alla salute dovrebbe, invece, essere universalmente garantito sopra ogni cosa e tenuto ben distante da calcoli di natura eminentemente ragionieristica». Fa specie, però, che lo scandalo – anche una volta scoperchiato un pentolone che in realtà bolliva già da mesi – rimanga circoscritto nei confini troppo ristretti del “togli a me per dare a te”, facendo apparire la questione più come l’ennesimo tira e molla tra le eterne rivali Cosenza e Catanzaro che non come una questione (di vita e di morte, è il caso di dirlo) che riguarda tutta la Calabria e i calabresi, quei «piccoli pazienti» sulla cui pelle, come affermato dal primo cittadino bruzio, non dovrebbe giocarsi questa partita.

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Lo scandalo, dunque, non è questione di luogo ma di quantità. Quanti posti di terapia intensiva pediatrica offre la sanità calabrese? Sono sufficienti questi posti ad assicurare la necessaria assistenza? La risposta – negativa, purtroppo – arriva da due parti. La prima sono i casi di cronaca come quello della bambina di Mesoraca, nel Crotonese, morta a due anni nel gennaio 2022 per le complicanze dovute al Covid. Ginevra Sorressa era stata portata con un volo militare al Bambino Gesù di Roma dopo una serie di trasferimenti di ospedale in ospedale, qui in Calabria, tra Crotone e Catanzaro, dove in assenza di una terapia intensiva pediatrica nessuno era riuscito a garantire gli adeguati trattamenti per la polmonite che aveva compromesso la sua funzionalità respiratoria. «Si è perso troppo tempo», aveva commentato all’indomani della tragedia uno zio distrutto dal dolore.

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Poi ci sono i dati. Che dicono che i posti nelle terapie intensive in tutta Italia sono insufficienti. Soprattutto al Sud. E quei 6 attualmente presenti in Calabria – che addirittura si ridurrebbero a 5 con il passaggio a Catanzaro – non bastano. Eppure il futuro smantellamento del reparto dell’Annunziata, dopo l’attivazione alla Dulbecco, è stato spiegato proprio con l’impossibilità di mantenere entrambi i reparti, e quindi tutti i posti letto, in rapporto alla popolazione.

E però un gruppo di esperti, numeri alla mano, ha pubblicato una lettera-denuncia sulla rivista Lancet in cui lancia un allarme sulla situazione delle terapie intensive pediatriche in Italia. Una situazione «preoccupante» la definisce all'Adnkronos Salute Leonardo Bussolin, presidente della Società di anestesia e rianimazione neonatale e pediatrica italiana nonché uno degli autori dello studio.

«I posti letto di terapia intensiva pediatrica in Italia sono pochi e mal distribuiti, la differenza tra le varie zone d'Italia è intollerabile», dichiara. In tutto il Paese sono 273 a fronte di 9.788.622 potenziali pazienti. Così, mentre lo standard raccomandato dall’Europa indica un posto letto ogni 20-30mila minori, da noi il rapporto è di uno a 35.586. Il numero giusto sarebbe 482, all’appello ne mancano più di 200, il 44,4%.

Con differenze evidenti da un capo all’altro della Penisola. Se infatti al Nord ci sono 128 posti letto (a fronte di un fabbisogno di 222), al Sud se ne contano solo 55 quando ne servirebbero 168 mentre il Centro con quota 90 è sotto di soli due posti letto, grazie alle 3 terapie intensive pediatriche del Lazio che alzano la media: Gemelli, Bambino Gesù e Umberto I. Quelle dove volano i nostri bimbi in cerca di salvezza. 

I numeri delle regioni

Situazione tragica in Valle D'Aosta, Trentino Alto Adige, Umbria, Molise, Basilicata e Sardegna, dove non c'è nemmeno un posto letto. Così era anche in Abruzzo fino a un mese fa, quando è stata inaugurata la prima terapia intensiva pediatrica. Ecco invece i numeri delle altre regioni: 15 posti letto in Piemonte, 22 in Liguria, 46 in Lombardia, 15 in Emilia Romagna, 24 in Veneto, 6 in Friuli Venezia Giulia, 22 in Toscana, 10 nelle Marche, 58 nel Lazio, 21 in Campania, 4 in Puglia, 6 in Calabria, 24 in Sicilia.

«Se alcune regioni sono messe meglio di altre, nessuna è a norma», sottolinea Bussolin. Che commenta: «La situazione è veramente critica, al Sud è drammatica. Ci sono delle zone dell'Italia in cui i bambini non hanno le stesse probabilità di essere curati nella stessa maniera rispetto ad altre zone. E questo, da un punto di vista etico, è riprovevole. Inaccettabile. Come società scientifica, abbiamo il dovere di sensibilizzare. Il nostro obiettivo con questo lavoro non è tanto denunciare, quanto sensibilizzare la politica. Ci vogliono risposte e programmazione».

Il medico aggiunge anche un altro dato: «Le terapie intensive, sia per gli adulti che per i piccoli pazienti, non devono mai essere sovraffollate, come segnaliamo su Lancet. L'occupazione non dovrebbe superare l'85% dei posti letto, proprio per avere anche un serbatoio di riserva per qualsiasi situazione fuori dal normale. Capisco che è difficile per gli amministratori accettare un concetto come questo, perché la terapia intensiva, come la medicina d'emergenza, come il pronto soccorso, sono tutti settori in perdita. Capisco che è difficile per chi deve far quadrare i conti, ma questo è, non si può fare altrimenti. È come un serbatoio, che è espandibile e comprimibile, in funzione delle necessità del momento. Questo lo si può fare con un'organizzazione adeguata e risorse economiche adeguate».

Un dato chiarissimo, se si pensa a quanto accaduto nei mesi tragici della pandemia da Covid. «Dopo quello che abbiamo vissuto, questa è una ferita aperta – evidenzia Bussolin –. Non solo. L'anno scorso abbiamo avuto una pandemia di virus respiratorio sinciziale, praticamente la bronchiolite, che colpisce i bambini entro i 2 anni d'età. Noi al Meyer non sapevamo dove ricoverarli, da quanto eravamo stracolmi, ma era così un po' dappertutto. È stato il Covid dei più piccoli: come impatto e flusso di pazienti per gli ospedali è stato intenso. Addirittura so che al Bambino Gesù avevano adibito al ricovero alcuni ambulatori. L'anno scorso è stato eccezionale, ma nulla ci dice che non può ripresentarsi anche quest'anno un'epidemia di Rsv. E cosa faremo?».