«Conosco l’ambiente degli ospedali di Reggio Calabria e provincia, ho preferito curarmi al Nord». Giuseppe ha 69 anni e vive a Seminara, ma da 5 anni percorre l’Italia per sottoporsi a visite specialistiche e interventi medici. I suoi problemi oncologici, tra cui un cancro al colon, lo hanno portato prima al policlinico Gemelli di Roma, poi a Milano, all’Istituto nazionale tumori.

Giuseppe è uno dei tanti migranti della salute; secondo un sondaggio Emg Different, un milione di meridionali negli ultimi 3 anni ha scelto di curarsi al Nord. Per dare un’idea, è come se a spostarsi fossero i residenti dell’area metropolitana di Bologna. Stando all’ultimo report Svimez, nella sola Calabria, il 43% dei pazienti oncologici si affida a strutture sanitarie fuori Regione.

«La salute è mia. Meglio me la gestisco, meglio mi trovo: allungo la vita di qualche anno», dice Giuseppe.

Ed è proprio per allungare la propria aspettativa di vita che i migranti della salute vanno a curarsi in un’altra Regione: principalmente in Lazio (37%) e in Lombardia (32%). Stanno via anche mesi, come Giuseppe, che ha dovuto sottoporsi a cicli di chemio e radioterapia prima dell’intervento di asportazione del tumore.

A mancare in Calabria non sono gli specialisti. «Sono anche seguito a Melito Porto Salvo, ci sono bravi medici – aggiunge Giuseppe -. Il problema è trovare un chirurgo a cui affidarsi e che ti segua prima, durante e dopo l’intervento». E così, come molti suoi conterranei, mantiene una “equipe” di medici di fiducia, sparsa qua e là in Italia. «Per adesso a Milano ci vado una volta all’anno, a novembre, e di solito rimango tra i 2 e i 3 giorni», dice ancora.

Migrare per curarsi implica delle spese. «Quando mi sposto per le visite, spendo minimo un migliaio di euro, e lo dico senza esagerare», racconta Giuseppe. «Ma chi ha la possibilità deve andare fuori; il problema è per chi non ce l’ha». E ricorda le disavventure con il padre: «Aveva un tumore alla prostata, in Calabria non lo hanno curato bene. Magari avrebbe vissuto qualche anno in più».

Centinaia, anche migliaia, i chilometri percorsi dai meridionali che si curano al Nord. E che spesso devono scontrarsi con i disservizi dei trasporti: «A volte è un viaggio della speranza, ci è capitato di fare 13-14 ore di treno, anche prendendo l’alta velocità», dice Rosa, moglie di Giuseppe, che accompagna sempre il marito per le visite mediche. «L’ultima volta, qualche settimana fa, abbiamo fatto 2 ore di ritardo», racconta.

La migrazione sanitaria è talmente frequente, che alcune organizzazioni di volontariato hanno deciso di offrire servizi di alloggio per chi si cura al Nord. CasAmica da 38 anni è presente in Lazio e in Lombardia, con 6 strutture vicine ai poli ospedalieri più importanti, come il Campus biomedico a Roma o l’Istituto nazionale dei tumori a Milano. Nel 2023 l’organizzazione ha ricevuto il 25% di richieste in più e offerto 43mila notti di accoglienza; 100mila le persone ospitate in poco meno di 40 anni.

«Sono molto disponibili e lì ci confrontiamo con gli altri ospiti; ognuno racconta la sua esperienza, anzi, la sua odissea», dice Rosa. «Strutture del genere aiutano a non sentirsi dei pesci fuor d’acqua, come di solito avviene stando fuori casa».

La migrazione continua, con una punta di amarezza per com’è l’andazzo della sanità in Calabria. «In Veneto hanno degli ospedali che sembrano hotel a 5 stelle, e ci sono medici bravi e preparati. Perché da noi non è possibile?», domanda Giuseppe. «Da noi sono rimasti solo i muri, il mare e le montagne».