La morte di Serafino Congi sull’ambulanza che da San Giovanni in Fiore lo trasferiva a Cosenza non è l’incrocio tra il destino e circostanze avverse come la nebbia che ha reso impossibile l’arrivo dell’elisoccorso lo scorso 4 gennaio. È molto di più: una tragedia annunciata da un sistema sanitario che non dà a tutti i calabresi le stesse possibilità di raggiungere cure che possano salvare loro la vita. Non è soltanto la sensazione di chi vive ogni giorno le difficoltà della sanità più periferica né di chi prova a raccontarle: lo confermano i numeri e l’analisi di uno studio dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. LaC News24 ha sentito uno dei suoi autori, il docente di Politica economica Domenico Marino, per commentare i dati e provare a offrire alternative per limitare disuguaglianze che rischiano addirittura di aumentare in futuro.

Professore, il recente caso di San Giovanni in Fiore ha riproposto il tema delle difficoltà logistiche per raggiungere i centri di cura in Calabria, soprattutto per chi vive in aree montane o periferiche. Crede che si possa parlare di tragedie annunciate?

«Il caso ha riportato drammaticamente all’attenzione il problema delle difficoltà logistiche per raggiungere i centri di cura in Calabria, in particolare per chi vive in aree montane o periferiche. Questo tema, affrontato in una ricerca condotta presso l'Università Mediterranea di Reggio Calabria da me e Giuseppe Quattrone, evidenzia una realtà sanitaria profondamente diseguale, che genera cittadini di serie A e cittadini di serie B. I dati emersi dallo studio rappresentano un quadro allarmante che rende il termine “tragedia annunciata” non solo appropriato, ma purtroppo reale. La ricerca, basata su un’analisi empirica e su modelli di trasporto multi-modale, ha simulato i flussi di pazienti verso le strutture sanitarie con particolare attenzione ai servizi di emergenza cardiologica, come l’emodinamica e le unità di terapia intensiva cardiologica (Utic). Tra i dati più significativi, emerge che in uno scenario in cui le risorse sanitarie vengono ulteriormente ridotte, quasi il 40% della popolazione anziana (con età superiore a 65 anni) potrebbe trovarsi a oltre 60 minuti di distanza da un centro attrezzato per interventi salvavita in caso di eventi avversi cardiovascolari. Questo dato, già grave in condizioni ideali simulate, diventa ancora più preoccupante se si considerano le criticità reali del sistema sanitario calabrese: traffico, disponibilità limitata di ambulanze, errori umani e infrastrutture insufficienti. Tutti fattori che hanno concorso a causare la tragedia di San Giovanni in Fiore».

L’Università si propone spesso di analizzare le carenze del sistema sanitario. Riguardo al caso della distanza dei pazienti dalle cure, quali ritiene siano gli aspetti più problematici?

«Dallo studio emerge con chiarezza una “sanità a due velocità” in Calabria. Da un lato, esistono aree in cui la popolazione ha accesso relativamente rapido ai servizi sanitari, ma dall’altro, vaste zone del territorio, in particolare quelle montane e periferiche, restano marginalizzate. Questa diseguaglianza non è solo logistica, ma si traduce direttamente in un rischio maggiore di mortalità e morbilità per una parte significativa della popolazione. In un territorio dove le patologie ischemiche del miocardio rappresentano una delle principali cause di morte, l’accesso rapido ai servizi di emergenza è vitale. La chiusura di strutture sanitarie critiche, come i reparti di emodinamica, e la carenza di ambulanze attrezzate con Ecg (elettrocardiogramma) sono fattori che aggravano ulteriormente la situazione. Come dimostrano i risultati del Modello B della ricerca, il 38,5% della popolazione anziana si troverebbe a oltre 60 minuti da un centro di emodinamica in caso di chiusura di uno dei due reparti attualmente attivi nella provincia di Reggio Calabria. Questo scenario, definito dagli autori della ricerca come “preoccupante”, fotografa una situazione in cui quasi quattro anziani su dieci sarebbero esposti a un rischio maggiore di morte evitabile».

Quali sono gli aspetti più problematici?
«Innanzitutto l’accessibilità geografica: l’orografia complessa della Calabria rende difficoltoso per molte comunità raggiungere rapidamente le strutture di emergenza, aggravando il rischio per i pazienti in condizioni critiche. Poi c’è la distribuzione iniqua delle risorse: la concentrazione dei servizi sanitari in pochi poli urbani penalizza gravemente le aree periferiche e montane, creando una sanità diseguale. Terzo aspetto problematico è la carenza di mezzi e personale: la disponibilità limitata di ambulanze, soprattutto quelle attrezzate con Ecg, e la mancanza di risorse umane ben distribuite compromettono la gestione delle emergenze. Infine citerei la pianificazione insufficiente: la mancata ottimizzazione delle risorse esistenti e l’assenza di una rete sanitaria ben coordinata aumentano le disuguaglianze e i ritardi, soprattutto per gli anziani, che rappresentano la fascia più vulnerabile. Questi fattori, combinati, creano una sanità a due velocità, dove una parte considerevole della popolazione rischia di rimanere esclusa dai servizi di emergenza».

Ha soluzioni o suggerimenti da offrire a chi è chiamato a governare un settore in cui la crisi è strutturale?
«Per affrontare la crisi strutturale della sanità in Calabria, si potrebbero adottare una serie di misure. Il potenziamento della rete ospedaliera: incrementare le UTIC e distribuire meglio i servizi di emodinamica, considerando le aree più isolate; investimenti in ambulanze attrezzate: dotare i mezzi di soccorso di apparecchiature per il monitoraggio Ecg, essenziali per il triage immediato e il trasferimento nei centri appropriati; telemedicina e innovazione tecnologica: implementare piattaforme digitali per consentire consulti e diagnosi a distanza, riducendo i tempi per l’intervento; l’ottimizzazione della logistica: Adottare modelli avanzati di trasporto per garantire una distribuzione più equa e strategica delle risorse. E poi è indispensabile la formazione e il coinvolgimento della comunità: creare reti di volontari formati per gestire le emergenze in attesa dei soccorsi e promuovere una maggiore consapevolezza sui servizi disponibili. Questi interventi potrebbero ridurre le disuguaglianze territoriali e migliorare l’efficienza del sistema sanitario. Ma con quali risorse finanziarli se la Sanità è il settore che subisce maggiori tagli in ogni finanziaria e se la Sanità calabrese ogni anno produrre deficit di centinai di milioni di euro?».

Per tornare a una delle parole chiave dell’anno appena concluso, crede che l’introduzione (a questo punto eventuale) dell’Autonomia differenziata potrebbe incidere sul governo del sistema regionale della sanità?
«L’introduzione dell’Autonomia differenziata rappresenta un rischio significativo per il sistema sanitario calabrese. In un contesto già segnato da profonde disuguaglianze, questa riforma rischia di aggravare ulteriormente la “sanità a due velocità” che caratterizza la regione. Da un lato, le regioni più ricche potrebbero beneficiare di maggiore autonomia per investire in servizi sanitari avanzati, ma dall’altro, regioni come la Calabria, con scarse risorse finanziarie e infrastrutturali, potrebbero vedere ridursi ulteriormente le loro capacità di garantire il diritto alla salute. Come evidenziato dalla ricerca, quasi il 40% della popolazione anziana è a forte rischio in caso di eventi cardiovascolari avversi. In un quadro di Autonomia differenziata, la disparità di accesso alle cure non solo persisterebbe, ma potrebbe ampliarsi, creando una frattura ancora più marcata tra cittadini di serie A e serie B. L’Autonomia differenziata, dunque, non solo non risolverebbe i problemi strutturali, ma finirebbe per consolidare un sistema sanitario iniquo e inefficace».