Ancora presente nella memoria personale e professionale, il ricordo degli anni in cui l’Aids spegnava tantissime vite anche nel reggino e in Calabria. In 40 anni, dal dicembre del 1981, quando la malattia iniziò a manifestarsi, ad oggi il livello di letalità si è abbassato. Resta, tuttavia, sempre necessario tenere alta la guardia nel fronte della ricerca e della prevenzione. Una pandemia molto diversa da quella da Sars-Cov-2 che stiamo vivendo adesso. Ne abbiamo parlato con Carmelo Mangano, già responsabile dell’unità operativa di Malattie Infettive del Grande Ospedale Metropolitano di Reggio Calabria e Covid Manager fino al febbraio 2021, quando è andato in pensione. Oggi, l’infettivologo Carmelo Mangano è consulente della Direzione Generale del Gom e della Casa Aids Castellace, nel territorio comunale di Oppido Mamertina, nel reggino.

Come possiamo oggi definire il livello di pericolosità e di pervasività sociale dell’Aids?

«I dati dell’Unaids (Programma delle Nazioni Unite per l'Hiv e l'Aids) sull’epidemia di Hiv e Aids, stimano che nel 2020 a fronte di 37,7 milioni di persone che vivono con il virus, ci siano state 1,5 milioni di nuove diagnosi.

Alla fine di dicembre 2020, 27,5 milioni di persone con l’Hiv hanno avuto accesso alle terapie antiretrovirali. Nel 2020, l’85% delle donne in gravidanza ha avuto accesso alle terapie antiretrovirali per prevenire la trasmissione del virus al nascituro.

Il numero di decessi per anno continua a diminuire, principalmente per effetto delle terapie antiretrovirali combinate, nel 2020 sono stati registrati 680.000 decessi.

Quindi, oggi non vi è più quella sensazione di pericolo imminente che si avvertiva durante gli anni del boom, ma ciò comunque non autorizza ad abbassare la guardia. Questa patologia, purtroppo, coinvolge ancora una quota rilevante di persone, in termini numerici, e sono ancora tanti i contagi. In Italia oggi, dagli ultimi dati disponibili, 7 persone in media, si infettano ancora con l’Hiv ogni giorno.

Dei 37,7 milioni di persone che oggi vivono con l’infezione da Hiv, 36 milioni sono adulti e 1,7 milioni sono bambini con meno di 15 anni. Comunque, il numero delle nuove diagnosi è diminuito dimezzandosi nel tempo, passando dal picco del 1997 con 3 milioni di nuove infezioni a 1,5 milioni nel 2020. Tuttavia, ogni settimana vengono diagnosticate circa 5000 nuove infezioni da Hiv tra giovani donne (15-24 anni); tra gli adolescenti dei Paesi dell’Africa Sub-Sahariana 6 nuove diagnosi su 7 riguardano ragazze (15-19 anni)».

Quanto oggi è da ritenersi ancora letale questa malattia?

«Ci sono buone notizie sul fronte dell'Aids. Il virus dell'Hiv si sta evolvendo in una forma meno letale e infettiva. Lo rivela uno studio dei ricercatori dell'università di Oxford. È come se nel corso degli anni si fosse adattato al nostro sistema immunitario, richiedendo un tempo più lungo per causare l'Aids. Se questo processo andrà avanti, il virus potrebbe alla fine diventare "quasi innocuo". Spesso infetta persone con delle difese immunitarie particolarmente attive ed efficaci, in tal modo il virus si trova 'intrappolato', si appiattisce - spiega Philip Goulder, uno dei ricercatori - o cambia per sopravvivere. Ma il virus paga un prezzo, cioè una ridotta capacità di replicarsi che lo rende meno infettivo, imponendo un tempo più lungo per causare la malattia».

Resta una malattia curabile anche se non guaribile?

«L’Aids è una malattia cronica con esito letale, ma è attualmente prevenibile grazie alla diagnosi precoce della condizione di sieropositività che permette di iniziare ad assumere i farmaci antiretrovirali per bloccare la moltiplicazione del virus.
Una volta contagiati dal virus Hiv non si può completamente debellarlo. Sono però disponibili molti farmaci, definiti antiretrovirali (Art), ciascuno dei quali blocca il virus in un modo diverso. Pertanto è la combinazione di almeno 3 farmaci antiretrovirali, da assumersi immediatamente dopo la prima diagnosi di sieropositività, anche quando ancora non vi sia nessuna sintomatologia, a garantire la protezione dalla malattia nel suo stadio conclamato e irreversibile. In questo modo si può condurre una vita normale con ottime aspettative».

Cosa indica, dal suo osservatorio, il livello basso dei contagi che si registra?

«Il calo dei contagi è il risultato dell’efficacia delle cure antiretrovirali, le quali, abbassando sino ad annullare la carica virale nei soggetti infetti, hanno contribuito a ridurre il serbatoio infettante circolante. Bisogna dare atto che le campagne d’informazione hanno dati buoni risultati, soprattutto sulla modificazione dei comportamenti sociali a rischio di contagio (ad esempio protezione nei rapporti sessuali, non scambiabilità degli aghi e di strumenti potenzialmente infetti usati per la somministrazione delle droghe, utilizzo di sangue sicuro, profilassi pre e post- esposizione a rischio, profilassi trasmissione materno-fetale, protezione e prevenzione durante atti sanitari a contatto con sangue e liquidi biologici, etc.)».


Che ricordo ha della sua attività nel reparto di Malattie Infettive del Gom?

«Ho visto il primo malato sieropositivo con Aids conclamata nel 1986 e di lì a poco tempo il numero è andato crescendo. Si trattava di pazienti con malattia avanzata, per i quali si disponeva solo la terapia per le infezioni opportunistiche, che si riuscivano a tenere sotto controllo con estrema difficoltà perché il virus incalzava replicando liberamente, abbattendo il sistema immunitario, senza il quale l’organismo non aveva nessuna possibilità di resistere. Nei primissimi anni curare una persona con Aids significava una assoluta sconfitta medica e spesso l’assistenza si risolveva in una drammatica ed anticipata “veglia funebre di morte annunciata”.
Oggi, a partire dal primo farmaco Azt, disponiamo di numerosi farmaci che, pur non costituendo ancora una cura definitiva per l'infezione da Hiv, in terapia combinata hanno permesso di abbattere la mortalità e la progressione della malattia causata dal virus, rendendo l'aspettativa di vita di una persona con Hiv ormai quasi sovrapponibile a quella di una persona sana di pari età».


Covid e Hiv sono due virus differenti, ma in base alla sua esperienza, vede dei punti di contatto tra le due pandemie?

«L’Hiv e la Covid-19 sono due infezioni diverse: la prima corre lentamente, l’altra velocemente interferendo con la relazione medico-paziente. Le terapie sono completamente diverse.
Solo i vissuti emotivi sono sostanzialmente comuni: il senso di impotenza dinnanzi all’infezione, il timore dei cambiamenti relazionali e i meccanismi di difesa innescati, tra negazione ed onnipotenza. Nei contesti sanitari vi è in certo senso una differenza rilevante che riguarda il ruolo dell’operatore sanitario. Nel caso di Hiv, esso non si esaurisce solo nell’efficienza della sua azione di cura, ma riguarda anche e soprattutto la sua capacità di accoglienza, ascolto e comunicazione. Spesso all’evidenziarsi di sintomi specificamente correlati all’Hiv, l’operatore sanitario accoglie, cura e supporta la persona con rapporto di vicinanza fisica ed empatica. Diversamente, l’operatore sanitario non potrà fornire la stessa accoglienza e cura anche alla persona con l’infezione da Sars-Cov-2. La presenza della mascherina e dei diversi dispositivi di protezione, infatti, provocano talvolta una forte interferenza con riferimento agli essenziali canali di comunicazione verbale e para verbale quali il gesto, lo sguardo, il tono della voce. Ciò obbliga ad un uso limitato delle parole stesse e ad una permanenza fisica per il tempo strettamente necessario, influenzando così l’efficacia della relazione professionale».


Perché per il Covid-19 il vaccino è stato disponibile quasi subito mentre per l'Aids ancora non c'è?

«Esiste un punto in comune tra l’Hiv e il Sars-Cov-2: sono entrambi virus che hanno come materiale genetico l’Rna (acido ribonucleico). Tuttavia solo l’Hiv ha un enzima capace di trasformare il proprio Rna in Dna, permettendogli di infiltrarsi nel cromosoma delle cellule infette. Eliminare un genoma virale che si è infiltrato in un cromosoma è decisamente difficile.
Il virus Hiv neutralizza continuamente le risposte immunitarie, aggirandole. Tutti gli approcci tentati finora non sono stati efficaci nel tentativo di creare un vaccino. Oltretutto esistono molte varianti, perciò servirebbero molti vaccini diversi. Peraltro, le persone sieropositive hanno anticorpi contro l’Hiv, ma non sono anticorpi capaci di eliminare le cellule infette, perché la maggioranza delle cellule è dormiente e non riconosciuta dal sistema immunitario come portatrice del virus. Il virus dell’Hiv è incredibilmente intelligente: sa nascondersi e aggirare le difese immunitarie, infettando direttamente il sistema immunitario, riesce a condizionare le risposte immunitarie e nello stesso tempo le distrugge progressivamente.

Il Sars-Cov-2, invece, è un virus che entra nel corpo attraverso le vie aeree superiori (naso, faringe e laringe) e si moltiplica nelle cellule del naso e della gola, senza alcuna infiltrazione nel cromosoma delle cellule infette, per tale motivo è aggredibile dalla risposta anticorpale a seguito dell’infezione o in risposta al vaccino. I vaccini a Rna Messaggero (mRNA come Pfizer e Moderna) costituiscono una difesa insostituibile: sono particolarmente potenti e rappresentano un’evoluzione considerevole della vaccinologia. L’idea alla base di questi farmaci è quella di lasciare che siano le nostre cellule a fabbricare in abbondanza il componente contro cui il nostro organismo si allenerà a lottare», ha concluso l’infettivologo Carmelo Manganoconsulente della Direzione Generale del Gom e della Casa Aids Castellace, nel territorio comunale di Oppido Mamertina, nel reggino.