Sono ormai diversi i casi anche in Calabria di pazienti completamente guariti da Coronavirus che nel tempo sono risultati nuovamente positivi al test. Casi che fanno discutere e preoccupano la popolazione. Il fenomeno, però, è presente in tutto il mondo.

I primi a studiarlo sono stati i coreani che hanno dimostrato che, in tutti i casi, si trattava solo di tracce di virus “morto” e quindi non infettivo. È un dato che tranquillizza, ma rimane sempre un paradigma che necessita di essere ancora approfondito con ulteriori studi. 

 

Il ministero della Salute considera completamente guarito da Covid, un paziente che risulta negativo a due tamponi consecutivi eseguiti a distanza di almeno 24 ore. Successivi test nuovamente positivi, sono da attribuire, con ogni probabilità, a tracce di un virus che ha perso la sua carica infettiva.

 

A spiegarlo sono il direttore dell'unità di Microbiologia clinica del policlinico Mater Domini Giovanni Matera ed il direttore del reparto di malattie infettive Carlo Torti. «Noi sappiamo che anche una piccola quantità di virus può essere infettivo – ha spiegato il prof. Torti – ma solo all’inizio, quando invece il virus scompare, ulteriori positivizzazioni del tampone, nella maggior parte dei casi, è rappresentato da tracce che si sono depositate nelle cellule di sfaldamento, che hanno una loro emivita piuttosto lunga, e vengono emesse dalle vie respiratorie come una sorta di depurazione dell’organismo, ma che non è in grado di determinare altre infezioni». 

Centri “post-Covid”

 

Oltre all’esigenza di un unico centro Covid , secondo i professori Torti e Matera, sarebbero necessari anche centri post-covid. «I pazienti guariti – hanno spiegato - che presentino o meno ancora tracce del virus non infettivo, non possono essere considerati degli “appestati”, ma devono e possono riammessi nella società, magari attraverso il passaggio in centri post-covid in grado di poterli assistere adeguatamente in questo periodo di transizione. In ogni caso, non possono continuare a rimanere in ambienti ospedalieri intensivi perché potrebbe nuocere alla loro stessa salute».

Nuova “ondata” in autunno: cosa fare

Il prof Torti, inoltre, ha dichiarato che in autunno bisognerà arrivare preparati ad una nuova possibile ondata del virus e che sarà importante vaccinarsi per l’influenza stagionale per evitare che una sovrapposizione dei due virus possa avere conseguenze devastanti.

«La popolazione – ha detto il prof Torti – dovrà imparare a convivere con il virus in maniera non ingenua. Anche se si torna a rincontrarsi, bisogna evitare di scambiarsi effusioni e continuare a rispettare le regole di distanziamento e l'utilizzo dei dispositivi di protezione. Non dobbiamo farci trovare impreparati». 

Il Covid-19 come l’influenza spagnola? 

Il Covid, secondo alcune teorie scientifiche, potrebbe avere la stessa evoluzione dell’influenza spagnola e trasformarsi nel tempo in una normale influenza. «Il Covid – ha spiegato il direttore dell'unità di Microbiologia clinica, Giovanni Matera - con molta probabilità si comporterà come “la spagnola” del 1918 dove purtroppo nella prima fase morirono tutti poiché non vi erano antibiotici per contrastare le complicanze di un virus di quella portata, però poi l’anno successivo tornò in forma meno severa e dal terzo anno in poi si è associata ai ceppi influenzali comuni e quindi ha perso quasi completamente la sua iniziale aggressività. Il Covid fino a 5 mesi fa era un virus animale in cui esisteva già un equilibrio, una sorta di “compromesso”, in cui veniva garantita sia la sopravvivenza del virus che dell’ospite, in quel caso, dell’animale. Il passaggio nell'uomo, invece, ha causato uno sbilanciamento importante. Quando lo stesso equilibrio si raggiungerà anche con l’uomo, il genoma perderà la sua carica aggressiva».

Tamponi: modalità e limiti

Come spiegato dal prof. Matera, in microbiologia esistono tre modalità per studiare l’infezione da Covid: il primo, quello storico, consiste nel tenere in incubazione per molti giorni il campione da esaminare e che però richiede laboratori altamente specializzati – ve ne sono 3 o 4 in tutta Italia – e che tutelino anche la salute degli operatori. Inoltre, il metodo è poco ripetibile.  

Il secondo modello mette in evidenza l’Rna virale, il genoma, che è quello che stiamo eseguendo. Questo, infatti, è il test di riferimento, molto avanzato e sofisticato, sui cui si basa la diagnosi del covid, però anche questo test presenta degli inconvenienti, perché non è in grado di distinguere un virus morto, non infettivo, da un virus attivo e quindi contagioso ed infettivo. 

Il terzo modello, cosiddetto “indiretto”, è rappresentato dai test sierologici che mette in evidenza soltanto la risposta del nostro sistema immune nei confronti del virus. Uno dei limiti principali è che soprattutto nella prima fase della malattia ci saranno 8-10 giorni, così come definito anche dal Ministero della Salute, che noi chiamiamo periodo “finestra” in cui non essendoci anticorpi, i test di tipo sierologici risulteranno negativi, però magari la malattia è in corso, mentre con il test molecolare si può mettere in evidenza il virus. E poi, pur avendo gli anticorpi non sappiamo se siamo protetti dal virus poiché vi sono almeno due tipi di anticorpi: quelli neutralizzanti che ci proteggono da una infezione o quelli che ci dicono soltanto che siamo venuti in contatto con il virus.