Appoggiato ad una ringhiera, lascio libero lo sguardo che si dirige verso le cinque dita. I liberi capelli sospendono la vista su ruderi abbracciati alla roccia, riscaldati dal Sole d’Aspromonte, infreddoliti dalla pioggia e dal forte vento invernale. In cammino, terra battuta da un viandante inglese, da viandanti per caso, da calabresi di ritorno, da stranieri portatori di nuova linfa, nuovo stupore, nuova bellezza, che sveglia gli abitanti del luogo dal dormiveglia, dall’abitudine al bello, dalla quotidiana visione priva di incanto.

Pentedattilo

I piedi battono il ritmo, una scala contorta, il vento, lo sguardo di una donna fiera e forte, l’essenzialità nei suoi occhi, la semplicità nelle sue parole, il disarmo di chi vorrebbe fare delle domande e si trova per terra come un pugile stordito da un pugno. Un incontro di sguardi su una terrazza, che si perde nella vallata ai piedi del monte Calvario. I resti di Pentedattilo oramai troppo vecchi sfidano gli anni. Riprendo il cammino, il suono delle campane mi riporta nel presente. Un campanile punge il cielo e un gatto mi guarda e prova pietà per un uomo che ha perso il passato e vuole ritrovarlo nel presente. Attorno a me ragazze e ragazzi in pantaloncini blu scuro e camicia azzurra.

Rivivono il paese in un’improbabile caccia al tesoro, mentre il tesoro li ha accolti: inghiottiti. Una fontana regala acqua benedetta dal silenzio, testimone di leggende e stragi per amore, che il vento d’inverno trasporta nelle vie strette e buie. Sono rimasto da solo in macchina: una busta, una bottiglia d’acqua, una telefonata, che riesco a fare velocemente. Vorrei andare, ma qualcosa frena la mia partenza. Scendo dall’auto, inizia a fare freddo, guardo la roccia, cerco di immaginare la mano non tanto visibile come un tempo.

Inizio a mangiare un panino e tra un morso e l’altro immagino il tempo passato, la vita di paese, la strage degli Alberti, il castello e la vita di campagna. Poi ripenso alle parole di una pastora, alla sua scelta di vita, al coraggio di essere lenti in un mondo veloce, al gatto che mi guarda e alle campane che suonano, nonostante il vuoto e l’abbandono.

Nonostante tutto continuano a suonare, a respirare attraverso il vento che dalla roccia scende verso il mare dei greci e chiama a raccolta i figli naturali e i figli adottivi, che lo amano pur non conoscendolo, solo per averlo incrociato tra le pieghe di una sciarpa o la scollatura di una maglietta al crepuscolo estivo. E riprendo il viaggio, bevo un sorso d’acqua, accarezzo un fiore e poi salgo in macchina.

Un ultimo sguardo verso la roccia: inserisco la marcia indietro e parto pur non volendo. Continuo a guidare guardando nello specchietto retrovisore. Ho la sensazione che la mano vibri lentamente per un saluto e che il vento mi chieda di tornare indietro… risento il suono della campana.

A quel punto mi fermo e riscendo, il silenzio mi avvolge, la mano immobile e nessun rintocco. Ho sognato che Pentedattilo mi chiedesse di restare, di tornare, di rivivere il passato, di accarezzare la sua storia e farla mia, metterla in tasca e raccontarla al mondo intero o semplicemente a me stesso. Uomo sconsolato in cerca di consolazione, uomo che tornando a casa regala la polvere di Pentedattilo ad una donna stanca ma felice di donare un piatto caldo, dopo un panino mangiato ai piedi di una roccia riscaldata dal Sole d’Aspromonte.