Emozioni, fango, sabbia: viaggio nel paese reggino meta delle tartarughe marine e rifugio dello scrittore
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Mentre guido volgo lo sguardo verso il mare, mosso e legato alle nuvole basse.
Il sole è timido dietro il grigio.
Non riuscirà a farsi vedere e la leggera pioggia mi accompagnerà in questo vagare nell’area Grecanica.
Raggiungo Brancaleone Marina e penso alla lentezza delle tartarughe Caretta caretta, che proprio in queste spiaggie della costa dei Gelsomini nidificano.
Lasciando l’inconfondibile scia di orme sulla spiaggia si muovono verso il mare, verso la loro vita.
Nonostante la lentezza riescono a raggiungere la libertà, non sempre però e non tutte, come accade all’umanità lenta e fragile.
Percorro pochi chilometri verso l’interno e su una collina timido e confuso si mostra nella sua immobile bellezza il paese di Brancaleone Vetus.
Parcheggio l’auto, il tempo si è fermato, salgo a piedi mentre tutto tace.
Il vento compagno di viaggio, gli ulivi muovono le loro braccia e le rocce raccontano millenni di storia.
Arrivo in una piazza bucata e scorgo una catasta di legna ai lati, la rivedo nei miei pensieri in bianco e nero.
Le buche si trasformano in bocche adesso vuote.
Continua a piovere, ricordo ancora il mio cammino lento, prima il piede sinistro e poi il destro, sospeso.
Un’ombra si muove nella pioggia, intravedo la barba e una macchina fotografica nelle sue mani.
I nostri passi si incrociano e un timido sorriso scaccia ogni vacua voglia di parole.
In lontananza una cornice invernale, il nero e un arco di pietra di una vecchia casa di Brancaleone Vetus.
Mi soffermo ad ammirare l’arte della potatura di un melograno, il frutto che simboleggia l’abbondanza, l’energia vitale e la fecondità.
Tra due staccionate un sentiero stretto e le pietre umide e scivolose.
Innanzi a me un cancelletto di legno socchiuso mi invita ad entrare.
Una grotta scavata nella roccia, circolare con un pilastro centrale quasi a sorreggere il peso del mondo, tracce Armene ai piedi dell’Albero della Vita.
Non so se chiudere o meno il cancelletto, lo chiudo e lascio dietro di me simboli di un tempo passato, il tavos, cioè un pavone, una fonte battesimale e un forno utilizzato per cuocere il Lavash, tradizionale pane armeno.
Decido di andare e di rimettermi in viaggio.
Rifaccio a scendere la stessa strada, guardo il mare e mi avvicino sempre di più per mischiare la terra del Vetus con la spiaggia delle tartarughe e di Cesare Pavese.
Arrivo sulla spiaggia, una barca vorrebbe prendere il largo, ma una fune la tiene stretta.
Impronte, cammino evitandole, perdo l’equilibrio e guardo l’azzurro dei greci e ripenso alla lentezza delle tartarughe. Rivedo lo scoglio lungo di Cesare Pavese, uno dei maggiori scrittori del novecento italiano e mi ricordo di aver intravisto una targa passando con l’auto nell’abitato di Brancaleone Marina.
“Cesare Pavese, Dimora del Confino, Anno 1935”
“La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era Greca.
Persino le donne che, a vedermi disteso in un campo come un morto dicono “Este u’ confinatu”.
Lo fanno con una tale cadenza ellenica che io mi immagino di essere Ibico e sono bell’è contento.
Cesare Pavese”.
Sul lato destro della strada che da Reggio Calabria conduce a Catanzaro, mi incuriosisce un’abitazione diversa dalle altre, con i muri in pietra, cancelli e canalette di colore verde, le finestre ed il portone di legno dentro una cornice gialla.
Busso alla porta e mi apre il proprietario della dimora dove un tempo Cesare Pavese scontò una parte del Confino.
Gentilissimo e sorridente mi fa visitare la sua abitazione.
Uno scrigno di emozioni, la parete di un delicato celeste, una lampada accesa illumina il modello di una motovedetta dei Carabinieri fedelmente riprodotto.
Una stanza, che profuma di antico, dove predomina il legno e i ricordi in cornice accendono il mio desiderio di letteratura.
Comprende la mia voglia di entrare in un luogo simbolo e mi accompagna innanzi ad una porta chiusa e se ne va senza proferire parola.
Apro, la luce è accesa, firmo la mia presenza in quel luogo su un quadernone appoggiato su un leggio e poi mi perdo in una piccola stanza.
Alla mia sinistra una cassapanca e alle pareti i ritratti di Cesare Pavese.
A completare l’essenziale arredo uno scrittoio antico, il letto, delle sedie e una bacinella per l’igiene personale.
È la vita semplice di uno scrittore.
All’improvviso il suo romanzo La luna e i falò invade la mia mente e poi richiudo quella porta per tornare al mio paese e non sentirmi mai più solo.
Devo custodire a fine viaggio le mie scarpe, solo loro potranno testimoniare le mie emozioni, tra fango, sabbia, polvere e sudore.