Seguire il brusìo di fondo dei media non mi è mai piaciuto. Ho sempre preferito pensare fuori dalla scatola. Stavolta, però, il tema è troppo importante e delicato per ignorarlo.

La pubblicità è una parte fondamentale della cultura popolare e si conferma sempre un riflesso del pensiero di una società. Sono sempre stato convinto che la comunicazione possa giocare un ruolo cruciale nel contrastare la violenza di genere, non solo fisica, consapevole che essa sia un fenomeno sociale e culturale con radici antiche nella storia italiana.

Senza colpevolizzarmi come “genere”, sono convinto che la cultura patriarcale nella comunicazione abbia contribuito a plasmare le dinamiche familiari per secoli, attribuendo autorità agli uomini e relegando le donne a ruoli subordinati. Questa struttura sociale ha contribuito a perpetuare disuguaglianze di genere.

La famiglia, spesso, è stata il primo contesto in cui si sono apprese queste disuguaglianze e dinamiche di potere. Non è il mio caso. Sono cresciuto in una famiglia di donne e questo mi ha permesso di avere una visione aperta e - aggiungo - molto “femminile” sulle dinamiche della vita.

Oggi sono padre di Ophelia, una piccola donna e sento ancora più forte la responsabilità di contribuire a divulgare un pensiero diverso e più rispettoso della figura femminile nella comunicazione.

Anni fa avevo già affrontato la questione in una precedente rubrica, mettendo in evidenza una campagna pianificata in Calabria. Con la solita creatività spicciola ed elementare, si giocava con le parole generando la cosiddetta “pubblicità sessista”. Affrontavo il discorso a tutela del cliente, complice ignaro dei danni che quel genere di comunicazione poteva arrecare all’immagine dell’attività ma questo non fu colto. Anzi, il mattino dopo mi sono ritrovato una serie di messaggi privati offensivi e minacciosi del proprietario, dei dipendenti e dei parenti tutti che, probabilmente richiamati alle armi, hanno preso il peggio del mio articolo, interpretandolo come un attacco diretto alla loro attività. Sono certo, viste anche le successive campagne che hanno accompagnato il brand, che qualcosa dentro gli sia rimasto. E va bene così, perché è chiaro che si tratta di un problema culturale complesso e radicato.

L'importanza della comunicazione nell'educazione su questi temi è cruciale. Aprire un dialogo consapevole e inclusivo può aiutare a smantellare stereotipi di genere, promuovere rispetto reciproco e creare ambienti sicuri in cui ognuno possa esprimersi liberamente senza timore di giudizio o violenza.

L'educazione sulla parità di genere e sulla prevenzione della violenza inizia nelle case, nelle scuole, nella società e nel mio caso anche sui mezzi pubblicitari, che riflettono e divulgano modelli di pensiero che, per troppo tempo, hanno rappresentato ruoli di genere stereotipati, promuovendo ideali irrealistici di bellezza e creatività sessiste.

Le donne sono state spesso oggetto di oggettificazione e ridotte a stereotipi di perfezione fisica, sottolineando l'aspetto esteriore anziché le loro abilità o intelligenza. Allo stesso modo, gli uomini sono stati rappresentati come forti, dominanti e risoluti, riflettendo una visione limitata e stereotipata della mascolinità. Bisogna anche ammettere, e lo faccio in punta di piedi, che spesso questo fenomeno è alimentato da comportamenti ed esibizioni generate proprio dalla figura femminile, non solo dal genere maschile.

Tuttavia, questo aumento della consapevolezza riguardo a questi problemi, con movimenti che promuovono una rappresentazione più diversificata e inclusiva nei media e nella pubblicità, può far solo bene e nel tempo può far fiorire tutti questi piccoli semi che stiamo spargendo nella società.

Le campagne pubblicitarie che sfidano i ruoli di genere tradizionali e promuovono l'uguaglianza stanno emergendo sempre di più, cercando di ridefinire i canoni di bellezza e di comportamento. Queste iniziative giocano un ruolo fondamentale nel cambiare le percezioni culturali, sgretolando gradualmente le fondamenta del patriarcato nella pubblicità, distruggendo ogni nuovo tentativo di campagne sessiste che usano la donna con slogan volgari che la società accetta sempre meno.

Un passaggio doveroso sento di farlo sui nuovi social media come tik tok dove spesso trovo contenuti o estratti di podcast dove giovanissimi affrontano le relazioni con una leggerezza sessista disarmante. Oggi il ragazzo figo è quello che chiama la propria ragazza BITCH e sono tante le hits che innondano le orecchie dei ragazzi dove la figura femminile è ridotta ad un oggetto sessuale senza valore. Su questo punto ho letto un pezzo di Angelo Calculli (ex manager di Achille Lauro), che fa un appello a Gianmarco Mazzi, sottosegretario alla cultura, per denunciare la situazione della musica italiana, dove la trap regna sovrana. Proprio durante i giorni della somparsa della povera Giulia Cecchettin è uscito l’ultimo album (record di ascolti) di Sfera Ebbasta. Al suo interno? Testi sessisti che istigano all’odio e che sembrano una prerogativa del genere. Anche qui una profonda riflessione è necessaria.

Per affrontare la tematica da un punto di vista “pubblicitario” storico e operativo servirebbe troppo spazio. Mi limito, quindi, a fare esempi storici per descrivere l’evoluzione nel tempo e alcune campagne recenti (vedi Pandora) che dimostrano come il problema sia ancora presente.

Attraverso i grandi mezzi di comunicazione, la figura e la relativa concezione della donna, è cambiata radicalmente negli ultimi sessant’anni, dopo la sua comparsa prima in televisione, poi sulle reti private, fino ai social media.

Tanto dovevo alle donne, tanto dovevo a mia figlia. Buona comunicazione a tutti.