No, Giorgia Meloni non rappresenta nessun pericolo fascista per l’Italia. Dopo il 25 settembre non ci sarà nessuna marcia su Roma come l’ottobre di cento anni fa. Non sarà ricomposta la compagnia dei balilla e ne’ tantomeno sarà  riproposto il sabato fascista. Evocare il  “pericolo nero” contro la Meloni è una tattica perdente. Anzi contribuisce a rafforzarla politicamente ed elettoralmente. Il pericolo fascista non è un tema spendibile in questa campagna elettorale. A questo “pericolo” non crede nessuno. Neanche quella sinistra che ancora predica il  “sol dell’avvenire”. Premesso tutto ciò, questo non significa che la leader di FdI abbia un profilo che ha sciolto tutte le ambiguità sulla natura del suo partito, soprattutto in relazione ai suoi rapporti internazionali con alcune destre europee, oltre che, le relazioni oltre oceano con gli ideologici del trumpismo. Relazioni  politiche alquanto discutibili. Dal profilo ambiguo. E che hanno qualche problema con il concetto della democrazia. Sono tanti dunque, i nodi che la Meloni deve ancora sciogliere. Tali ambiguità, infatti, potrebbero rappresentare un serio problema per il paese, nel caso, come appare probabile, la leader di FdI, assumesse la guida del governo.

Alleanza con Orban sciagura per il paese

Se nessuno dunque mette in discussione la sua affidabilità democratica, è abbastanza evidente che invece, la sua concezione della collocazione dell’Italia nel panorama internazionale assume un rilievo dirimente. Il governo di un paese democratico, è l’esercizio complesso di delicati equilibri economici e politici nel contesto della politica estera. È da questo esercizio che deriva tutto. I mercati, la tenuta finanziaria e monetaria. La politica economica. Fino al costo delle bollette. Comprendere la visione della società nel contesto delle democrazie liberali da parte della Meloni è essenziale per far comprendere al paese e agli elettori, il grado della cultura di governo dell’aspirante premier. È adeguata la potenziale leader del centrodestra a svolgere un ruolo delicatissimo nel pieno di una crisi energetica senza precedenti e, nel contesto di una economia di guerra? In un contesto del genere la domanda sorge spontanea.

E ancora come intende collocarsi nel contestodegli equilibri europei? A fianco delle grandi nazioni come Francia, Germania, Spagna, oppure nel solco di modelli discutibili e ambigui come l’Ungheria e  la Polonia? Le ultime iniziative sul piano internazionale della Meloni sono state un crescendo di scivoloni pericolosi. La questione Orban, è una di queste. Il segnale venuto fuori dal parlamento europeo non lascia intravedere nulla di buono. Lega e Fratelli d’Italia hanno votato contro il rapporto approvato dal Parlamento Europeo che indica l’Ungheria come un rischio sistemico per i valori dell’Ue e chiede l’intervento più deciso del Consiglio. Lo si evince dai risultati di voto individuali diffusi dall’Eurocamera. I gruppi ID ed ECR, che raggruppano gli europarlamentari di Lega e Fratelli d’Italia, si sono infatti opposti in blocco al rapporto. Una presa di posizione molto grave. Un atteggiamento che ripropone, con buona pace della leader di Fratelli d’Italia, l’interrogativo degli interrogativi: quanto egli sia affidabile sul fronte internazionale ed europeo.

La pezza della leader di FdI peggio del buco

Quanto è alto il “rischio” che un probabile governo Meloni ci trascini verso disastrose derive sovraniste? Quanto è alta la probabilità di scivolare verso derive orbaniste, o peggio lepeniste sul piano della politica interna e internazionale? Orban, in Ungheria, si è reso reso protagonista di scelte molto discutibili e non solo sul piano dell’attacco ai diritti civili ma anche sul fronte delle libertà di stampa. La pezza con la quale la Meloni ha tentato di giustificare la posizione del suo partito nel parlamento europeo a favore di Orban, è peggio del buco. “Orban è stato eletto democraticamente e il popolo è sovrano”- ha affermato la leader della fratellanza italiana. Un’affermazione assolutamente insignificante e carica di pericolose ambiguità. La storia è piena di dittatori eletti democraticamente, i quali, una volta al potere, hanno mortificato diritti e libertà. Vorrei citarne uno per tutti: Adolf Hitler. Il presidente ungherese, è ambiguo anche sul fronte della lealtà atlantica ed europea rispetto a Putin. La Meloni si è sempre dichiarata favorevole alle sanzioni. Eppure, Orban, a commento della presa di posizione di FdI e Lega ha affermato: «Spero nel prossimo governo italiano per togliere le sanzioni contro la Russia».

La confusione è altissima. Al punto che Silvio Berlusconi, è stato costretto ad avvertire l’alleata: «O si sceglie l’Europa oppure noi siamo fuori dall’alleanza». L’abisso potrebbe essere dietro l’angolo. La politica estera è una cosa maledettamente seria per un grande paese e non può essere ridotta a ragionamenti da osteria tra un piatto di polenta e un bicchiere di lambrusco o tra un cocktail e l’altro al Papete. Mario Draghi, lo sa più di qualsiasi altro, tanto che, è costretto a mettere un punto rifilandoalla Meloni una stoccata micidiale e che lascia poco spazio al l’interpretazione: «Per fare gli interessi degli italiani -ha affermato il premier- vi siete scelti gli alleati sbagliati». Pesci in faccia anche per  Salvini: «Siamo con Francia e Germania. I pupazzi prezzolati non batteranno la nostra democrazia». Una situazione del genere ci consegna uno scenario preoccupante in relazione all’adeguatezza della classe dirigente che dovrebbe gestire la più grande emergenza energetica dal dopo guerra ad oggi.

Sulla politica estera non ci possono essere debolezze, sbavature, ambiguità e derive di nessun tipo. Giorgia Meloni, fino ad oggi ha tentato di accreditare di se stessa un profilo moderato. La leader di FdI ha continuamente teso a frenare i “bollenti spiriti” del suo alleato Matteo Salvini, prendendo continuamente le distanze dalle frequenti  boutade del leader del Carroccio, con l’obiettivo, neanche tanto celato, di un graduale allontanamento dalle posizioni sovraniste radicali. Parola d’ordine: tranquillizzare le cancellerie europee, i vertici di Bruxelles e, soprattutto, i mercati. E, magari, tentare di far dimenticare un passato antieuropeista. E tuttavia, in poche ore, ha dilapidato un credito di credibilità che stava tentando di costruirsi fin dall’inizio della campagna elettorale.

Una caduta, preceduta da un’altra scivolata qualche giorno prima. In un intervento, rivolgendosi all’Europa aveva esclamato: «La pacchia è finita». Una manifestazione di arroganza senza fondamento. Un segnale non molto distensivo per l’Europa, da parte di colei che, da qui a qualche giorno, potrebbe essere un potenziale  premier. L’Italia è il paese del più grande debito pubblico dell’unione, la pacchia, per il nostro paese è l’Europa. Pensate cosa sarebbe successo con la pandemia senza il salvagente dei fondi del Pnrr decisi in Europa. Per non parlare di quello che avrebbe potuto succedere il 2011, quando proprio il governo Berlusconi, di cui peraltro la Meloni faceva parte, ci portò sull’orlo della bancarotta. Scivoloni? Gaffe da retorica elettorale senza significato? Oppure malcelate convinzioni che vengono fuori ad ogni piè sospinto? Chi è veramente Giorgia Meloni? Un aspirante neo Orban delle borgate romane, oppure, un autorevole aspirante premier dal profilo europeo, allineato alle democrazie fondatrici dell’Unione? Interrogativi non di poco conto, ai quali, la leader di FdI farebbe bene a dare risposte convincenti. È arrivato il momento per la Meloni di fare chiarezza sulle sue “visioni” o suggestioni su i  modelli di riferimento. Deve dimostrare di non essere la visione più edulcorata di Salvini e deve farlo con i fatti.

Quali sono i suoi leader europei di riferimento? Orban? Le Pen? Oppure, il suo è modello Trump? Quel modello neo conservatore che ha minato e logorato le basi democratiche della rappresentanza degli Stati Uniti, legittimando l’assalto a Capitol Hill dopo la sconfitta alle elezioni presidenziali? La cultura democratica e liberale  di un leader non si misura esclusivamente dal consenso popolare che si riceve, ma dal rispetto rigoroso dei valori dentro i quali si tengono le democrazie. Il resto è populismo pericoloso.

Passare dal parlamentarismo al presidenzialismo?

E a proposito di ciò, la leader del centrodestra qualche nodo dovrebbe scioglierlo anche sul fronte della politica interna.È legittimo immaginare una riforma in senso presidenziale. E, tuttavia, una tale riforma presuppone una radicale revisione dell’impianto costituzionale. Passare da un regime parlamentare ad un regime presidenziale non è una passeggiata. Una tale riforma va costruita con l’apporto e con il consenso di tutte le forze politiche, sociali ed economiche del paese. Tanto più se, ti avventuri in un’impresa del genere senza avere il consenso del 51% del corpo elettorale. E, soprattutto, se ti ritrovi nel simbolo quella fiamma tricolore che non solo richiama ad una storia passata discussa, ma era il simbolo del partito che quella costituzione non l’ha mai votata.

Questi sono i nodi politici che la Meloni non ha ancora sciolto.

I numeri, almeno secondo gli ultimi sondaggi prima del divieto di divulgazione, sono tali che rendono abbastanza prevedibile una vittoria della leader di FdI e del centrodestra e, altrettanto ipotizzabile, dunque, che la Meloni intorno alla fine di ottobre, possa salire al Colle per ricevere l’incarico di formare il nuovo governo e trasferirsi a Palazzo Chigi. Tutto ciò, al netto di un altrettanto probabile e robusta astensione elettorale e con un centrodestra che, comunque, si attesterà al di sotto del 51% della maggioranza degli elettori.

Con queste  previsioni e con questo quadro, si combatte per abbassare la percentuale proporzionale dei potenziali vincitori. La strategia del Pd e delle altre forze politiche di gioca su questo, e non, come erroneamente affermato da qualche analista, sulla possibilità della conquista di qualche collegio uninominale. La partita sulla quota del maggioritario ormai è sostanzialmente chiusa. L’obiettivo? Semplice. Alcuni punti in più o in meno potrebbero conquistare quel pugno di parlamentari necessari a ridimensionare la portata numerica della vittoria del centrodestra. Ciò, potrebbe fare la differenza ai fini della  modifica la costituzione. La battaglia dunque, non è ribaltare l’esito nei collegi uninominali, impresa ardua, ma il contrario, abbassare il più possibile la quota proporzionale. Spiego il perché.

Si lotta per il proporzionale non per l’uninominale

Come abbiamo avuto modo di scrivere più volte, il sistema elettorale, l’articolazione del centrosinistra, il terzo Polo, i grillini di Conte e la frammentazione delle stesse forze antisistema, rendono matematicamente impossibile qualsiasi forma di ribaltamento del dato elettorale. A meno del totale fallimento delle previsioni dei sondaggisti, i quali di solito sbagliano per difetto e non per eccesso. Un esempio pratico: 379 seggi saranno eletti su base proporzionale, più o meno corrispondente alle percentuali dei vari partiti; il centrodestra, sempre secondo gli sondaggi, potrebbe eleggere 183 seggi dei 379 con il sistema proporzionale. Poco meno della metà. I restanti 221 dei 600 totali saranno eletti con il maggioritario secco (vince chi prende un voto più dell’altro). Il centrodestra, nonostante differenze, divisioni, competizioni interne si è coalizzato tutto. Il centrosinistra no.

Da soli corrono il terzo polo, il M5S, e altre aggregazioni di sinistra o civiche. Ciò significa che, in quasi tutti i collegi uninominali, il centrodestra è in vantaggio,  a meno di imprevedibili colpi di scena, per la conquista di quasi tutti i collegi uninominali. Le uniche aree nelle quali il Pd e suoi alleati potrebbero resistere si trovano in Toscana e in Emilia Romagna, qualcosa nel Lazio e in Campania. Per il resto il centrodestra sulla carta è vincente dappertutto. I collegi dove, potenzialmente,la coalizione della Meloni potrebbe vincere sono 177,  se questi potenziali seggi, si sommano ai 183  del proporzionale, il centrodestra potrebbe conquistare 360 parlamentari. Con 360 parlamentari la maggioranza per governare il paese sarà ampia.

L’equilibrio all’interno sarà poi, determinato dai seggi che ogni forza politica conquisterà dalla quota proporzionale, ai quali si sommeranno i seggi conquistati nel maggioritario secondo la ripartizione dell’accordo politico. La partita dunque si giocherà su questi numeri. Dipenderà dalla consistenza e dalla ripartizione dei seggi nella coalizione vincente e tra le coalizioni arginare l’impostazione della Meloni e di Salvini,sulle alleanze internazionali, piuttosto che dal rafforzamento del morente liberalismo di Berlusconi o dell’agonizzante moderatismo di Lupi e Foti alla canna dell’1%.