Nel confronto con la leader di Fdi, il segretario democrat è apparso ingessato, logorato dai sondaggi. La sensazione è stata quella di un competitor rassegnato alla sconfitta. Poi l’ammissione: l’alleanza con Fratoianni e Verdi senza prospettive. Si ode già il rullo dei tamburi di guerra congressuale (ASCOLTA L'AUDIO)
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Il confronto tra la Meloni e Letta dal sito del Corriere della Sera, non ha determinato scatti in avanti per nessuno dei contendenti. È stato un confronto piatto, all’insegna del fair play, a tratti noioso. Se proprio si deve fare un bilancio però, a nostro avviso, la leader di FdI è uscita molto meglio. Enrico Letta è apparso ingessato. Senza entusiasmo. Probabilmente condizionato e logorato dai sondaggi. Ancor più condizionato dalla fronda interna che si è aperta ancor prima della fine della competizione elettorale. I rulli di tamburi congressuali si sentono già in sottofondo.
Le posizioni che si scontreranno saranno abbastanza scontate. Una posizione guarderà al terzo polo, un’altra posizione al massimalismo di Fratoianni e M5s. Da una parte si troverà sicuramente il governatore dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini e, dall’altra parte, tutta la compagnia che va da Goffredo Bettini, passando per Peppe Provenzano fino ad Andrea Orlando. In mezzo, capi corrente e capi bastone, tra i quali, i post democristiani come Dario Franceschini, che si posizioneranno con coloro che gli sapranno garantire la fetta di torta più sostanziosa nella gestione del partito. È ormai sempre così, fin dalla nascita di questo partito, il quale sistematicamente, ingoia i propri leader. Questa volta, oltre a cambiare il segretario, sapranno anche affrontare i nodi politici del maggior partito del centrosinistra italiano? Difficile prevederlo. Il problema che da lustri sta logorando, i Ds prima e il Pd dopo, è l’incapacità a trasformarsi finalmente in una compiuta forza socialista e liberale.
Se Calenda e Renzi supereranno il 5%, il problema politico potrebbe diventare una catastrofe per il partito del Nazareno. Il Pd, infatti, si troverà al centro di due fuochi: la tentazione massimalista e la prospettiva riformista. E questa volta dovrà scegliere senza ambiguità. Enrico Letta è consapevole di questo drammatico schema ma, ormai, è impotente. È un leader con le mani legate, ostaggio delle correnti. La speranza di una sconfitta temperata da un Pd primo partito sembra ormai tramontata. Queste difficoltà hanno pesato nel confronto con Giorgia Meloni. Il nodo delle alleanze si è riproposto in tutta la sua drammaticità, allor quando, il direttore del Corriere della Sera, ha invitato a delineare il rapporto tra il Pd e la sinistra/verde di Fratoianni e Bonelli. La risposta è stata debole: “una semplice alleanza elettorale”. Niente di più. Il tentativo malcelato di nascondere un deficit di strategia politica. Una debolezza disvelata, tra l’altro, nel confronto con il proprio competitor. Una gaffe che ha suscitato anche irritazione tra i suoi alleati. Una gaffe che si aggiunge a quella di qualche giorno fa, in un’iniziativa a Milano, dove aveva affermato di augurarsi di perdere bene. Se, in campagna elettorale, fai un’affermazione del genere, ciò significa che hai gettato la spugna. Il segretario del PD insegue un 4% in più che potrebbe impedire alla destra di conquistare il 55% dei seggi parlamentari.
Le prossime elezioni non le vince la destra. Le perdono tutti gli altri
Un sos che arriva dopo una serie di errori nella gestione delle candidature, delle alleanze e della strategia di comunicazione elettorale. Dopo l’obiettivo di un Pd primo partito, ora si lotta per impedire alla destra di Meloni di arrivare a quella quota di parlamentari che potrebbe consentirgli di cambiare la costituzione senza passare per il referendum confermativo. Un’ impresa ardua, almeno secondo i sondaggi che abbiamo letto nei giorni scorsi. Se le previsioni dovessero essere confermate, infatti, il meccanismo elettorale potrebbe regalare alla coalizione di centrodestra la maggioranza parlamentare più consistente della storia del parlamento repubblicano. Il paradosso è che, una tale valanga di parlamentari, potrebbe essere conquistata senza la maggioranza del corpo elettorale. Il centrodestra è ben al di sotto della fatidica soglia del 51%. Le simulazioni fanno accapponare la pelle ai costituzionalisti più progressisti e ai teorizzatori del “pericolo fascista”.
La coalizione di Meloni potrebbe conquistare il 60% dei seggi pur avendo meno del 50% dei consensi, mentre tutti gli altri, pur avendo più del 50% potrebbero prendere meno del 40% dei seggi. Le prossime elezioni, dunque, non le vince la destra. Le perdono tutti gli altri. Ecco perché Letta sembra essere più orientato alla costruzione di una "Linea Maginot" che faccia da argine allo tsunami che potrebbe consentire alla destra di conquistare il 60% dei seggi parlamentari. Un tale obiettivo potrebbe consentirgli una maggiore agibilità politica soprattutto in prospettiva. Un’impresa abbastanza difficile, considerato i meccanismi capestro del sistema elettorale. Tuttavia, è l’unica battaglia che, allo stato, potrebbe consentirgli una riaggregazione di tipo politico, culturale ed elettorale.
Prossimo capro espiatorio: Enrico Letta
Letta oggi fa appello al soccorso democratico, anche se gli si potrebbe obiettare che la gran parte di coloro che sono stati candidati in posizione eleggibile sono gli stessi parlamentari che l’attuale legge elettorale l’hanno votata in parlamento. Il centrosinistra, per l’ennesima volta, rischia di ritrovarsi sull’orlo dell’abisso. Era già avvenuto dopo la catastrofica sconfitta del 2018 a vantaggio del M5s. Anche in quell’occasione si sprecarono i grandi auspici di cambiamento. Alla fine, gli anni sono trascorsi invano. Il Pd si è ritrovato al governo. Al posto di Renzi arrivò Zingaretti, il quale gettò la spugna dopo qualche mese. Da Parigi ritornò Letta. Nessun nodo è stato sciolto. Nessuna contraddizione è stata affrontata. E, oggi, il Partito democratico si ritrova con il problema di sempre: perché il popolo italiano non gli consegna la maggioranza necessaria per governare? Per quali motivi la società italiana continua a non fidarsi della sinistra? Interrogativi mai affrontati.
Domande sempre eluse, una volta per un motivo, un’altra volta per un altro. E così, gli interrogativi, ogni volta si ripropongono alla vigilia di nuove catastrofi elettorali. Sistematicamente. Da 30 anni. Dopo il 25 settembre lascerà anche Enrico Letta. E anche in questo caso, il ceto politico del Nazareno, tenterà di farlo passare per capro espiatorio. Tuttavia, la responsabilità è di una intera classe dirigente e della sua irresistibile vocazione al frazionismo e al minoritarismo. Malata di correntismo. Impegnata in lotte interne sanguinose. Avvelenata da irrazionali risentimenti. Responsabile di disastrosi errori politici. Condizionata dall’intellettualismo post sessantottino intriso di falso moralismo.
La sinistra italiana dovrà partire da questi difetti e da tanti altri di contenuto, se vorrà veramente correggere la propria funzione nella società italiana. Sono questi errori che potrebbero produrre, da qui a un mese, al netto di improbabili ribaltamenti, cose paradossali e curiose. La cosa più curiosa è che, per la prima volta nella storia della Repubblica, la prima donna alla quale Draghi molto probabilmente passerà il campanello del CdM, non è una liberale, una cattolica, una socialista, una post comunista ma, paradosso dei paradossi, l’erede del partito di Almirante, di quel partito che, nella prima Repubblica, veniva definito fuori dall’arco costituzionale perché non votò la Costituzione. Il bello è che Giorgia Meloni conquisterà Palazzo Chigi senza cancellare la fiamma tricolore dal suo simbolo. Un simbolo che si richiama alla storia del partito di Almirante. Ben altra sorte, invece, quella toccata agli eredi del Pci, i quali prima che un loro rappresentate varcasse la soglia di quel palazzo, dovettero cancellare la Falce e Martello e abiurare più volte alla loro storia.
Ironia della sorte o scherzi della storia? Entrambi, ma anche l’incapacità dei post comunisti di conquistare la fiducia piena degli italiani. Dopo il 26 settembre, ci vorrà coraggio per cambiare. Il ceto politico democrat troverà questo coraggio per una svolta radicale? Difficile dirlo. Ci sarà bisogno di una robusta virata politica, culturale e ideale. L’intellettualismo e, una sorta di partito della “cultura” parallelo, hanno segnato il destino della sinistra italiana per 30 anni, allontanandola dal popolo, fomentando il peggior populismo moralistico (i M5s sono figli di quella sub cultura politica) e il peggior fondamentalismo ambientalista. L’intellettualismo moralistico post sessantottino è responsabile dell’ammanettamento della sinistra ad una ideologia ambientalista ottusa, dell’ammanettamento della sinistra ad una certa ideologia sindacalista e dell’ammanettamento della sinistra con l’ideologia dell’establishment. Una definizione di Augusto Del Noce, filosofo, ed ex senatore della Dc, calza perfettamente per descrivere il partito della cultura che si è sovrapposto ai partiti della sinistra italiana: «Il partito della cultura resta il più serio ostacolo allo sviluppo in senso liberale della nostra democrazia, e il più serio ostacolo alla trasformazione della sinistra in un partito del popolo, e non solo delle élite, degli intellettuali». La sfida vera, per gli inquilini del partito del Nazareno, il 26 settembre partirà da questa definizione.