La scarsa partecipazione al voto oltre che in  Calabria, questa volta si è estesa Paese. Ciò potrebbe rappresentare, a breve, la bancarotta fraudolenta della democrazia.

I segnali di questa catastrofe partecipativa c’erano da tempo ma sono stati ignorati. La politica ha fatto finta di niente, continuando a concentrare la propria azione sulla gestione del potere. Litigando per le poltrone, scannandosi all’interno tra correnti, tra fazioni, tra cordate. In questo paese e nella nostra regione, i partiti, colonne portanti della nostra democrazia sono stati disintegrati sotto i colpi del qualunquismo alla grillina e della stessa deriva della politica e dalla magistratura.

La libertà non è star sopra un albero / Non è neanche avere un'opinione / La libertà non è uno spazio libero / Libertà è partecipazione. Con questi i versi di una straordinaria canzone, Giorgio Gaber, il 1973 cercava di spiegare con gli occhi e il cuore di un’artista cosa volesse dire libertà. Il tutto nel vortice di un’epoca politica esaltante, drammatica e intrisa di emozioni che spingevano a credere che si fosse nel pieno di una stagione che avrebbe trasformato il mondo. 

Cosa è rimasta di quella stagione? Sul piano ideale niente. Forse ancora rimangono le fondamenta di alcune conquiste sociali: lo statuto dei lavoratori, la riforma sanitaria. Per il resto solo macerie. Tutto è stato distrutto a partire da tangentopoli.

La politica ha buttato via l’acqua sporca con tutto il bambino. Ha deciso suicidarsi rinunciando alla sua supremazia. I fermenti della stagione degli anni 60 e 70 lasciarono sul campo morti e feriti. Fu una feroce stagione di conflitti sociali, di contestazioni, di derive terroristiche, di contrapposizioni ideologiche. Eppure, la politica, seppur contestata da vasti movimenti riusciva a mantenere la sua credibilità. I partiti, nonostante il ’68, nonostante un regime democratico zoppo che andava avanti senza la possibilità di un vero ricambio (al PCI, in conseguenza della Conventio ad excludendum determinata dalla guerra, veniva precluso di governare) mantenevano la loro capacità di organizzazione delle masse e del consenso. Ciò, era possibile grazie a quello che ci ricordava Gaber: la partecipazione.

I partiti attraverso organizzazioni capillari, con il supporto dei corpi intermedi, attraverso i collettivi, le associazioni, i movimenti, riuscivano a coinvolgere la gente (le masse) formava élite di classi dirigenti. La discussione era viva e interessava tutte le categorie sociali, dai lavoratori agli intellettuali. Si discuteva, ci si mobilitava, si mettevano in campo visioni, utopie, illusioni e si cercava di indicare una via, un punto di vista, una prospettiva.

Alle elezioni regionali del 1975 in Calabria, votò  l’83,13%. Negli ultimi 20 anni il grado di disaffezione è stato costante. Nelle elezioni del 2014 e poi il 2020 ha avuto la maggiore caduta che si conferma anche in questa competizione. I due terzi dei calabresi non credono più alla politica nostrana. Il problema della scarsa partecipazione che prima riguardava prevalentemente il sud e in particolare le competizioni nazionali, ora si è esteso a tutto il paese. Tutto ciò, nella più completa indifferenza del ceto politico di centrodestra e di centrosinistra.

Norberto Bobbio che ci aveva spiegato il concetto minimo di democrazia. Quando si parla di democrazia, dobbiamo intenderla in un certo modo limitato, cioè attribuendo al concetto di democrazia alcuni caratteri specifici sui quali si possa essere tutti d’accordo. Bobbio sosteneva “che per dare una definizione minima di democrazia bisognava dare una definizione puramente e semplicemente procedurale: vale a dire definire la democrazia come un metodo per prendere decisioni collettive. Si chiama gruppo democratico quel gruppo in cui valgono almeno queste due regole per prendere decisioni collettive: 1) tutti partecipano alla decisione direttamente o indirettamente; 2) la decisione viene presa dopo una libera discussione a maggioranza. Queste sono le due regole in base alle quali a me pare che si possa parlare di democrazia nel senso minimo e ci si possa mettere facilmente d’accordo per dire dove c’è democrazia e dove democrazia non c’è.” L’interrogativo sorge spontaneo: nel momento che il “gruppo democratico” inteso come il corpo elettorale di cui parlava Bobbio si va sistematicamente assottigliando, la democrazia rischia il dissolvimento o no? Dovrebbe essere questa la vera preoccupazione della politica, delle élite intellettuali, degli accademici e di tutti i centri culturali del paese piuttosto che questa stucchevole discussione sulla presunta democrazia calpestata dai green pass dei vaccini e tutte le amenità a cui  siamo costretti ad assistere ogni giorno.

Se la classe dirigente della politica non comincerà ad interrogarsi sui motivi che hanno spinto la maggioranza del paese a rimanere casa piuttosto che andare a votare, considerato che fino agli anni '80 si recava alle urne con una partecipazione che oscillava tra l’85 e il 93%, il rischio del dissolvimento della democrazia partecipativa è ormai dietro l’angolo. È vero, in una democrazia è legittimo astenersi. Prodi sostiene, per esempio, che in fondo nelle democrazie occidentali la vera anomalia era rappresentata dalle alte partecipazioni italiane alle consultazioni elettorali. Ma vogliamo riconoscere invece, una volta per tutte che forse è arrivata l’ora di archiviare definitivamente una stagione insana nella quale ci eravamo convinti a forza di assistere appassionati alle elezioni americane,alle quali partecipano un numero esiguo di elettori, che forse non sia quello il modello di democrazia a cui aspirare?

Ogni paese ha le sue peculiarità. La cultura politica dell’Italia del dopo guerra si è alimentata in questa “anomalia” della partecipazione, e se oggi la maggior parte dei cittadini ritiene inutile l’esercizio democratico, vuol dire che è intervenuta una profonda rottura tra la gente di questo paese e la politica che aspira a rappresentarla. Un uomo di sinistra non dovrebbe dormire la notte per trovare una soluzione a questo drammatico problema. I governanti e le classi dirigenti farebbero bene ad interrogarsi molto seriamente su cosa stia succedendo. La società dell’apatia domina già le cosiddette nazioni moderne.

Basti pensare a quello che sta succedendo sul clima. Oppure ai vasti movimenti che contestano la scienza a partire dai no vax. Quando la democrazia rappresentativa non è più espressione della stragrande maggioranza dei popoli le istituzioni diventano più fragili e conseguentemente più vulnerabili. Il rischio che un uomo della provvidenza, oppure un’entità di comunicazione sovranazionale, possano ritornare a pensare di trasformare i parlamenti del mondo in “un bivacco di manipoli” è sempre dietro l’angolo.