Interventi all’insegna della linea di non belligeranza verso il commissario per andare al congresso senza intoppi. Nessuna analisi credibile sulla sconfitta
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Ho seguito con grande attenzione l’assemblea regionale del Pd calabrese per cercare di comprendere se questo partito intende veramente affrancarsi dagli errori che lo hanno portato ad incassare due devastanti sconfitte alle elezioni regionali, dei limiti della propria azione di governo, della crisi di un gruppo dirigente che per anni ha accettato i disastri politici della conduzione di un commissario di scuola mastelliana, del fallimento della politica nazionale dei commissariamenti della sanità calabrese. Con tutta la buona volontà non ci sono riuscito.
È probabile che sia stato un mio limite, anzi, sicuramente sarà così. E, tuttavia, ho percepito un dibattito stanco, privo di contenuti, incapace di andare in fondo nell’analisi della crisi del Pd e della sinistra calabrese.
Nel dibattito ha prevalso il tatticismo sui contenuti
Il mantra ripetuto fino alla noia è stato quello di buttarsi tutto alle spalle e andare al congresso per ridare ai democrat calabresi la potestà del proprio destino politico. Luoghi comuni, conditi da una certa spocchia, anche quelli declinati dal responsabile nazionale degli enti locali Francesco Boccia. Il resto degli interventi è stato l’esercizio un po’ opportunista, un po’ ipocrita, di donne e uomini vicini a Graziano che hanno cercato di accreditare l’idea del “buon lavoro” svolto dal commissario, nonostante tutto. Ciò con l’obiettivo malcelato di buttarsi alle spalle la fase di Graziano con tutto il cucuzzaro, senza alimentare conflitti con il Pd nazionale. Il resto degli intervenuti, infatti, hanno portato avanti una linea di non belligeranza verso Graziano e Boccia. Parola d’ordine: andare al congresso senza intoppi. Pochissimi gli interventi che hanno tentato di andare un po’ più affondo.
Qualche accenno è arrivato dallo storico democrat Mario Paraboschi, da Giuseppe Aieta e pochi altri. Insomma, il tatticismo ha prevalso sulla possibilità di una discussione franca e rigeneratrice. A conferma di questo ragionamento: nessun potenziale candidato alla segreteria regionale si è fatto avanti. Sebi Romeo, il quale secondo autorevoli indiscrezioni sarebbe il candidato in pectore lanciato verso la conquista della segreteria, sostenuto da quasi tutto l’assetto democrat cosentino che va da Adamo alla Bruno Bossio fino a Iacucci e Carlo Guccione e a pezzi del Pd reggino ha preferito tacere.
Ciò rivela che, evidentemente, qualcosa ancora non quadra. Silenzio anche di Nicola Irto, colui che ha subito il torto maggiore dalla disastrosa gestione di Stefano Graziano e dai democrat di largo del Nazareno. Muto Ernesto Alecci, astro nascente della circoscrizione catanzarese. Non pervenuto Mimmo Bevacqua, capogruppo uscente, il quale pensa alla vicepresidenza del consiglio. Neanche una parola dall’ex presidente della provincia di Catanzaro Enzo Bruno, vittima sacrificale del commissario Graziano per garantire gli equilibri interni della propria corrente, quella di Lotti e Guerini.
L’interrogativo sorge spontaneo: veramente qualcuno è convinto che il Pd calabrese possa ripartire senza una vera discussione e una vera analisi degli errori devastanti di questo partito nella nostra regione negli ultimi anni? L’assemblea regionale del Pd calabrese è apparsa ostaggio dei vecchi vizi del passato. Il partito di Letta, in Calabria, sconfitta elettorale o meno, continua a vestire i panni di un eterno comitato elettorale e ad apparire come il malfermo trampolino di lancio di future carriere istituzionali. Niente di più. Molti di coloro che provengono dalla tradizione del Pci hanno finanche dimenticato i rudimenti del pensiero gramsciano: «Un gruppo sociale deve sforzarsi di diventare dirigente già prima di conquistare il potere e diventare dominante. Dopo, quando esercita il potere, diventa dominante, ma deve continuare ad essere dirigente». Il Pd e i suoi dirigenti hanno smarrito da tempo il significato della funzione “dirigente” rincorrendo solo il la pratica per esercitare il potere per il potere.
La grottesca relazione di Graziano
Stefano Graziano, nella sua scarna e superficiale introduzione all’assemblea regionale del Pd, ha sostenuto che bisogna smetterla di fare polemica senza fare una proposta politica e ha accusato qualcuno del suo partito di nascondersi dietro alle posizioni di qualche “giornalista” che si presterebbe alla polemica. A quale giornalista si riferisse Graziano, non si comprende, tuttavia, da questa testata, più volte abbiamo analizzato la situazione politica del Pd e offerto spunti e contenuti per un dibattito. Ergo, ci sentiamo in qualche modo chiamati in causa. L’analisi critica verso l’atteggiamento di un partito politico, non è polemica fine a se stessa, ma rappresenta il sale della democrazia. Nella concezione culturale nella quale ci siamo formati, i dirigenti politici si misuravano dialetticamente con i notisti. Sarebbe appena il caso di ricordare storici e memorabili confronti ingaggiati da Berlinguer e Moro con i maggiori editorialisti del Paese. Da quanto abbiamo potuto osservare, invece, non ci è sembrato che il commissario mastelliano del PD calabrese, sia mai stato interessato ad un confronto costruttivo sui temi critici sollevati dalle note politiche della nostra testata. Almeno non ci è sembrato che abbia mai avuto il coraggio di confrontarsi seriamente con una stampa critica, preferendo piuttosto, confrontarsi con una stampa accondiscendente.
Il commissario del Pd calabrese ha preferito andare avanti per la propria strada. E su quella strada è andato a sbattere più volte. Incassando sconfitte elettorali e politiche. Esponendo il suo partito a figure clamorose anche sul fronte dell’opposizione in consiglio regionale. Ricordo un episodio per tutti: la legge approvata in meno di due minuti dal consiglio regionale, proposta dal consigliere regionale di centrodestra Graziano e sostenuta dal Pd, che provava a reintrodurre il privilegio anche nel caso della decadenza del politico per un qualsiasi motivo, di maturare il “trattamento di fine mandato”. In quell’occasione Pippo Callipo affermò: «Mi hanno fatto firmare un documento non veritiero e per questo mi tutelerò nelle sedi opportune». Non ci pare che il commissario del Pd in quella circostanza abbia ritenuto di aprire una discussione sulla qualità della opposizione del suo partito. E vogliamo parlare della grossolana, a tratti volgare, gestione del tavolo del centrosinistra? Errori su errori. Gaffe su gaffe.
Il dibattito che è seguito all’introduzione di Graziano, tuttavia, ha rivelato che tutti i guai del Pd non possono però essere riconducibili solo alla gestione del commissario. Fosse solo questo sarebbe di facile soluzione. Il problema è molto più profondo e riguarda la qualità del gruppo dirigente. Alcuni degli intervenuti si sono soffermati sull’aspetto meno rilevante dei problemi del maggior partito della sinistra calabrese: la criticità del metodo di reclutamento on line degli iscritti al Pd. Forse l’unica vera novità del prossimo impianto congressuale. Per il resto, discussione vuota. Nessuna voce critica e autocritica si è levata dalla platea per pretendere un approfondimento sui motivi della doppia sconfitta elettorale in pochi mesi, dell’abbandono del partito di una storica figura come Oliverio, della fuga dai banchi del consiglio regionale di Pippo Callipo, dell’incapacità di costruire un fronte unitario verso le destre, dell’approssimazione nella decisione della candidatura a presidente della Ventura, dell’iniziativa di Amalia Bruni di collocarsi sui banchi del gruppo misto, della frantumazione del fronte del centrosinistra, della scelta di rinunciare alla candidatura politica di Irto. Niente di niente. E ancora, nessuno che ha chiesto conto della miopia nell’individuazione dei candidati, nella formazione delle liste e tanto altro. Tutte cose che avrebbero dovuto essere sviscerate in un’assemblea che si propone l’obiettivo di ripartire. E invece niente. Bla bla bla, per usare la metafora di Greta Thunberg. C’è da augurarsi che i candidati alla segreteria regionale avranno il buonsenso di presentare delle piattaforme programmatiche a supporto delle loro candidature e consentiranno una discussione vera sulla natura e sull’identità del Pd che si vuole costruire.
Il commissario Stefano Graziano ha poi sfiorato il grottesco, allorquando, si è avventurato nell’analisi del consenso raccolto da de Magistris, definendolo populismo antipolitico. L’ex primo cittadino napoletano ha raccolto il 17%. Si può affermare semplicisticamente che il gradimento dei calabresi all’ex sindaco di Napoli possa essere ricondotto solo al populismo e all’antipolitica? Dentro quel 17%, infatti, c’è qualcosa di molto più complesso: a) la rappresentazione della crisi dell’insediamento della sinistra in questa regione; b) il drammatico problema dell’ambiguità della scelta del Pd nei ceti che intende rappresentare; c) la difficoltà di individuare le istanze che intende trasformare in progetto politico.
Definire tutto ciò, istinto antipolitico e populista, oltre che una stupidaggine, rivela la drammatica inadeguatezza di dirigenti Pd come Stefano Graziano, nella lettura dei processi sociali e politici di questa regione. E poi ci chiediamo: se il 17% delle liste di de Magistris sono antipolitica come dovrebbero essere definite le argomentazioni contro la politica e contro lo stesso Pd, usate da Tansi e da un pezzo del M5S imbarcato dai democrat a sostegno della Bruni? Non è stata forse questa una delle scelte poco credibili e contraddittorie della coalizione costruita dai democrat? Non è forse lo stesso PD ad aver alimentato la crescita di un sentimento anti politico nella sinistra calabrese?
Costruire un fronte unitario in consiglio regionale
Il compito di una forza politica che si colloca nel campo progressista, come dovrebbe essere il Pd, fin da subito, dovrebbe essere quello di porsi il problema di come recuperare ad un progetto politico un’area come quella che si è raccolta intorno all’ex sindaco di Napoli. Definirsi riformista, per rimarcare una diversità politica con i cosiddetti “populisti di sinistra” sarebbe un altro errore fatale. Dirsi riformisti senza collocarsi in un campo ben definito, non vuol dire assolutamente niente. È semplicemente l’esercizio di una dialettica vuota. Il riformismo deve accompagnarsi ad una visione politica chiara. Anche settori del centrodestra si definiscono riformisti. Anche la destra di Almirante si definiva riformista.
Il Pd, nei prossimi giorni si troverà di fronte il primo banco di prova sul quale potrà dimostrare la buona volontà di ricostruire un tessuto unitario nell’opposizione alla giunta di centrodestra guidata da Roberto Occhiuto. Il banco di prova sarà il consiglio regionale convocato per il 15 novembre. Il segnale potrebbe essere rappresentato dall’elezione degli organismi di minoranza dell’ufficio di presidenza. In consiglio ci sono due opposizioni che rappresentano due coalizioni. Una visione lungimirante presupporrebbe che i due ruoli che toccano alle opposizioni, ovvero il vice Presidente e il segretario questore fossero divisi equamente tra le due opposizioni. Tra l’altro, gli eletti della lista di de Magistris, Antonio Lo Schiavo e Ferdinando Laghi, sono due esponenti politici assolutamente ragionevoli e affidabili. A quanto sembra, invece, il commissario Pd, Stefano Graziano, pare che abbia dato indicazione di lasciare fuori dai ruoli di garanzia il gruppo di de Magistris. Una scelta del genere sarebbe un grave errore di strategia e di prospettiva. L’ambizione di un partito che intende costruire un campo progressista unitario, cosi come va sostenendo Enrico Letta e così come va raccomandando Romano Prodi, passa attraverso dei segnali distensivi verso tutta la galassia politica che va dai moderati alla sinistra più radicale e alternativi al centrodestra. La tentazione del Pd calabrese di prendere tutto e dividersi il bottino con i 5 stelle, per quanto potrebbe essere una scelta utile a soddisfare gli appetiti interni, si rivelerebbe miope e poco lungimirante sul piano politico.
Le elezioni politiche sono dietro l’angolo anche in Calabria, se il Pd e tutto il centrosinistra intende giocare la partita e tentare di vincerla, si liberi subito della zavorra rappresentata dal commissario, e costruisca un progetto politico progressista autenticamente calabrese cominciando a dare consistenti segnali unitari a partire dal prossimo consiglio regionale.