Nulla è più tragicamente odoroso di un vicolo arabo di Sicilia. Più tragicamente in luce delle case meridiane bianche e basse di un'isola così strenua nella sua bellezza da apparire blasfema agli occhi degli dèi. La musicalità di voci sincopate annuncia, lungo il diametro di un pomeriggio di settembre, l'assenza di infanzie estorte al cortile. L'autunno isolano dice di scomparse appena in essere. Dice di una bimba mancante. Che diserta, d'improvviso, la scena quieta di giochi e suoni di quartiere. Per congedarsi dalla consuetudine calda nel ventre del Sud di una provincia italiana.

Denise si dilegua in men che non si dica: di lei non v'è più traccia. Mazara del Vallo, il cui corpo di mare acre e di scogliera si fa da subito palude d'ombra e di mistero, smarrisce il suo sole di grano, ardito e supponente. Denise Pipitone non sparge di sè alcun indizio: tramuta in ciò che non ha ritorno. Seguono indagini, processi, sentenze definitive che assolvono "perfidie" di parenti rancorosi. Tramontano, sul piano probatorio, ipotesi di vendette ordite da donne ferite, a causa di tradimenti e, nella specie, di paternità trasgredenti l'ordine costituito di famiglia tradizionale.
Si fa strada, nel frattempo, la pista di un rapimento a cura di non meglio identificati nomadi, la cui fondatezza risulta gracile. Piera Maggio, madre dal cuore testardo, non si rassegna. Esige la verità. Non demorde. Tornano le indagini.

Sennonché, diciassette anni dopo, l'attualità a noi più contigua si incarica di riscrivere, malamente, la vicenda di Denise. L'ultima bufala, in ordine di tempo, riguarda la ragazza rintracciata a Scalea, che si presumeva essere Denise e che, invece, ha tutt'altro percorso genetico e biografico.
Il sospetto che le sembianze della bimba di Mazara stiano setacciando ossessivamente il sentire comune, d'un tratto poliziesco e inquirente, si irrobustisce. C'è di più: sporge, a questo punto, una sorta di allucinazione condivisa, che sospinge ciascuno, da casa, ad autoproclamarsi sceneggiatore e "mandante" del racconto televisivo, attraverso la rivendicazione di presunte ricomparse della piccola Pipitone.

Dentro un rito simildemocratico in cui la televisione sceglie di negoziare la sua aura pedagogica. Abdicandovi. Cosicché abbia luogo la mutazione genetica del telespettatore, non più voyeur, ma, fatalmente, protagonista ed estensore di ogni trama narrativa. Siamo alla declinazione orizzontale del palinsesto. Al flusso incontrollato e velocissimo di elettroni. Alla selvaggia libertà di zapping dell'anima, suggerita, a sua volta, dalla cosiddetta "estetica della fretta". Deleuze dixit. Non solo. La scrittura del tempo in tv è quella guizzante e sfuggente della suggestione collettiva. Indifferente alle istanze censorie della veridicità.

Intanto, ineludibilmente, si va precisando uno snodo pubblico delle coscienze che concede ad ognuno il tentativo di risarcire Piera Maggio del danno subìto, dentro un malinteso senso della solidarietà e delle umane vicinanze. Denise è diventata, così, il nostro alibi di cittadini caritatevoli. La bugia ingorda che divora l'ebbrezza da occhio di bue. Denise è ormai derubricata a storia delle nostre piccole vanità da pianerottolo. A lei si deve, invece, il riguardo solenne che esige una tragedia italiana e mediterranea. Lo sguardo ardito di quel sole di grano sui pescherecci e sulle basse case arabe di Mazara del Vallo, dal corpo di mare e di scogliera, farà il resto.