Il tormentato omaggio di Antonella Grippo a Maria Chindamo, l’imprenditrice rapita nel 2016 alla quale, secondo le dichiarazioni di un pentito di ‘ndrangheta, sarebbe stato inflitto il più cruento dei castighi
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Vorrei raccogliere i frammenti di cristallo del tuo sguardo per farne mare avverso che travolga i lidi quieti del mio pianto avaro. Mi piacerebbe imbastire per te un abito d'aria e di ametista per vestire l'azzardo del tuo corpo mancante. O spingermi oltre le darsene pigre e dimesse dell'inverno verso insonnie da salpare, alla volta dell'estremo tuo soffio. C'è ancora tanta strada lungo quei tuoi zigomi arditi. Tutta da risalire. C'è passo antico, e rapsodia di viole in quel tuo andare in fretta contro la lieve brezza di maggio.
La belva, la maledetta belva, gonfia di sangue da tributare al demone dell'odio, ti attendeva ingorda per infliggerti la morte che, poi, secondo un Basilisco, avrebbe dato in pasto ai maiali. Cosicché, di te e del tuo volto non sopravvivesse cenno. Maria, dilaniata dagli appetiti dei porci o triturata dai trattori, è fantasma che danza furente dentro le nostre diroccate sensibilità e che non possiamo congedare, vilmente, come ruvida cronaca.
Il femminismo d'ordinanza, quello che si indigna quando una donna crepa per mano del suo compagno, qui è stato colto di sorpresa. Non ha schierato l'esercito delle suffragette afflitte. Maria Chindamo è vicenda che dilania i cliché e i telaietti di molte damine di San Vincenzo: è schianto di ogni consuetudine luttuosa femminicida, di ogni confortante ormeggio simbolico. La sua scomparsa, del resto, tratteggiata, in origine, come castigo tribale comminatole dal "tribunale" dei parenti a difesa dell'onore del marito suicida, sembra assumere altri contorni. Sempre che i racconti di un collaboratore di giustizia siano suffragati da elementi probanti. Il movente, stanti le dichiarazioni di quest'ultimo, risiederebbe nel rifiuto della donna di cedere in vendita terreni di sua proprietà a chi li pretendeva. Ad ogni modo, i fatti non appaiono di agevole interpretazione.
L'atroce parabola di Maria solleva dubbi che ingraciliscono i nostri codificati schemini di lettura. Che rendono pavido il nostro sdegno di parata. In ogni caso, per il terribile destino di questa indomita creatura di Calabria non ci siamo incazzate abbastanza. A lei abbiamo indirizzato parole timide, pudiche. Come se la lupara bianca ne avesse maciullato l'eco. Il senso. Io stessa, da giornalista, non ho saputo dire. La storiaccia di Limbadi ha tramortito ogni fiero racconto, ci ha sospinto oltre i recinti del "politicamente corretto e corrente" della femminanza militante da schierare se il maschio predatore ammazza per un regolamento di conti passionale. Siamo sul crinale di una realtà altra e diversa che, proprio in virtù dei suoi segni non convenzionali, ci convoca tutte. Senza distinzione di coccarda più o meno "femminista".
Maria falcidia i nostri alibi di costernate di tendenza, devasta il dejà-vu del risentimento a comando se ad arderci vive o a pugnalarci è l'uomo che ritenevamo "amante", nel senso più assertivo di un participio. Chindamo per i nostri archetipi è l'inedito, ancorché oltremodo edito nella fenomenologia della 'ndrangheta. C'è strada lungo i tuoi zigomi arditi, Maria. Tutta da risalire, al lume di uno sguardo di cristallo che, questa notte, viola il sonno delle mie dune.