Quanto sta accadendo in Ucraina entra in diretta nelle nostre case confondendosi grottescamente con la nostra routine quotidiana. Dispone di soldati simbolici sempre attenti, di guarnigioni che presidiano le nostre insonnie e animano i nostri incubi
Tutti gli articoli di Le perfidie di Antonella Grippo
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La guerra trasmessa in diretta scandisce l'incedere dei giorni: il nostro - ormai - è un vivere per "delega" affidato alla trascrizione digitale. A meno che non si voglia rivendicare una sorta di estraneità delle nostre cose quotidiane rispetto alle inesorabili immagini della traiettoria delle bombe. Del resto, non puoi non negoziare con la tv il tuo punto di vista sul mondo.
Rischieremmo, con tutti i distinguo del caso, il destino dello sfortunato eroe del Videodrome di Cronenberg, che spara al teleschermo per non essere simbolicamente "censito" dentro un paesaggio perdutamente paranoico e, al tempo stesso, di attendibilissima, realistica ferocia. La guerra, quale schianto "pornografico" della Storia - per noi che la osserviamo da casa - va in scena lungo un orizzonte elettronico, nella massima compressione temporale dell'istante mediatico.
Più che di un racconto, sembra trattarsi di una transestetica sinistra che - paradossalmente - tradisce il suo stesso mandato: quello di derealizzare i fatti per tradurli in software. "Non c'è differita né sospensione. Non c'è ritardo nella messa in onda simultanea dell'Evento, che si fa osceno proprio perché inibisce la proroga necessaria alla Parola, all'Idea". Baudrillard lo aveva inteso prima di ogni altro. Ad ogni modo, la televisione annulla le categorie classiche di spazio e tempo, sicché le nostre vite possano situarsi, hic et nunc, nelle ventre di ogni accadimento.
I fuochi di Ucraina, irradiati dalle onde magnetiche dentro i nostri tinelli, ardono in prossimità di consuetudini domestiche che ritenevamo inviolabili. Ci accerchiano. Sono terribilmente veri. Così come altri fuochi di conflitti del recente passato. La morte stessa - d'altro canto - resa ormai molecolarmente manifesta da impietosi prosceni multimediali, dimora laicamente presso la nostra attualità empia, che ne divelte il solenne mistero lacerandone gli abiti regali. La terrea sacralità. Più di quanto non abbia già fatto sin qui la pandemia mondiale, lasciando sporgere l'imminenza della fine oltre il freddo monitor delle estreme terapie cliniche.
La morte, insomma, non è più faccenda di altri, ma irrimediabilmente tua. La vedi tramutare in percezione nettissima. Si aggira tra gli aromi dei tuoi reiterati caffè. Prenota i tuoi taxi, sale a bordo dei tuoi treni, si acquatta nell'ultimo millimetro di una sigaretta che congiura contro il tuo respiro lieve. Ti usurpa gli specchi, la nuvola di un fard in disuso. Si accovaccia tra le pigre, dissimulate lentezze di un pomeriggio d'inverno.Ogni tanto la senti muovere passi di rumba a ridosso dei fondali della notte. Ti sorveglia. Non molla, la morte. Dispone di soldati simbolici sempre attenti. Di guarnigioni che presidiano le tue insonnie. Trattiene in ostaggio le cellule dell'anima. Sparge indizi di sé dentro la regione brulla dell'angoscia. Sovrana, quest'ultima, su qualsivoglia, residuale ragionevolezza.
La percezione della morte confisca ogni altro sentire. Invade le dune dell'Es. Potente e dispotica, detta lo spartito greve. Il ritmo delle arterie. Ti vive addosso con inaudita sfrontatezza, avendo smarrito la sua aristocratica indicibilità. Non solo: interrompe ogni trama misterica per darsi - discinta - al nostro sguardo. Come solitaria e decifrabilissima straniera errante in inelegante disarmo.